Nei giorni scorsi è stata pubblicata la classifica di Reporters sans frontières sulla libertà di stampa nel mondo. L’Italia, in linea con i pessimi risultati che ha sempre raggiunto in questa graduatoria, ha perso ulteriori posizioni rispetto all’anno scorso, situandosi al 77esimo posto nel mondo. Prima di noi vengono Paesi come Moldova, Nicaragua, Tanzania, El Salvador, Madagascar, ecc. Non proprio esempi di pluralismo e democrazia.

Come siamo finiti così in basso? Per capirlo, bisogna analizzare il sistema di valutazione utilizzato dalla ong per stilare la classifica. Come spiega il Post, il meccanismo si divide in due fasi: una di indagine qualitativa, l’altra quantitativa. La prima è composta sottoponendo un questionario a una serie di referenti (le cui identità non sono rivelate per ragioni di sicurezza) impegnati nella libertà di stampa nei singoli Paesi. Si chiede loro di valutare vari aspetti del giornalismo, divisi in sei argomenti: pluralismo, indipendenza dei media, contesto e autocensura, legislatura, trasparenza e infrastrutture. La seconda fase aggrega (soppesandoli in diversi modi) vari dati di tipo quantitativo, ossia il numero di giornalisti uccisi nel Paese, quelli arrestati, minacciati e licenziati. Con un complicato sistema di somma e aggregazione dei dati raccolti, che comunque privilegia gli aspetti qualitativi rispetto a quelli quantitativi, si ottiene un punteggio, che dà luogo alla classifica finale. Si tratta di un sistema che poggia dunque principalmente sulla valutazione delle persone interpellate. Ciò vuol dire che bisogna fare molta attenzione nell’equiparare, per esempio, un voto molto negativo dato al pluralismo dei media in Italia e lo stesso voto dato, per esempio, a El Salvador. Indubbiamente ci sono problemi in entrambi i Paesi ma, se si basa la valutazione sulla percezione di chi ci vive, non si può pensare che un “4” dato in Italia sia paragonabile a un “4” dato nel Paese con il più alto tasso di omicidi al mondo.

Con questo non vogliamo certo dire che in Italia vada tutto a gonfie vele, ma solo che bisogna fare attenzione a prendere alla lettera classifiche basate su metodi che implicano possibilità di errore anche rilevanti, che infatti restituiscono di anno in anno una realtà molto bizzarra, in cui per esempio la Francia finisce dietro a Botswana e Burkina Faso. Ma torniamo all’Italia, dove i problemi comunque non mancano. Al di là dei giornalisti perseguiti per aver pubblicato un libro sugli scandali nella Chiesa cattolica, che stanno avendo problemi con la giustizia della Città del Vaticano (che però non è in Italia) e del fatto che ci siano tra i 30 e i 50 giornalisti che vivono sotto scorta (c’è dunque uno Stato che si occupa di proteggerli dalle minacce della criminalità organizzata, il che è un bene), ciò che limita sicuramente la libertà di stampa (e che non emerge nei commenti alla classifica di Rsf) è la concentrazione del mercato.

Recentemente i gruppi editoriali che controllano due dei maggiori quotidiani italiani, Repubblica e La Stampa (nel cui gruppo sta anche il Secolo XIX), hanno annunciato una fusione che porterà «alla creazione del gruppo leader editoriale italiano», come ha scritto il Corriere della Sera (le cui sorti saranno comunque influenzate dall’accordo, visto che Fiat Chrysler Automobiles ha attualmente una partecipazione in Rcs, di cui ha promesso di disfarsi). Si tratta di un’operazione che riduce il pluralismo nell’informazione, di cui ovviamente nessun quotidiano (se non i più piccoli e non interessati dall’accordo) ha parlato in maniera critica. Ricordiamo con quanta preoccupazione ci si occupava in passato dei rischi di concentrazione del mercato televisivo nelle mani delle aziende di Silvio Berlusconi.

Oggi la creazione di un grande gruppo in grado di controllare l’informazione viene presentata (dai diretti interessati) come un grande risultato per l’editoria italiana. Qualcosa non torna. Peraltro, il direttore del Post Luca Sofri fa notare come già prima di questo accordo ci fosse un’intercambiabilità di direttori tra le maggiori testate italiane, che non è certo sintomo di grande indipendenza: «L’Italia è un paese che ha tre grandi quotidiani, i più importanti di tutti, e c’è una persona che negli ultimi anni ne ha diretti due su tre, ed è stata a un passo dal dirigere il terzo, dove era stata a lungo data per sicuro direttore. Tre quotidiani, i più importanti, quelli che dovrebbero costituire tre punti di vista alternativi, hanno la direzione intercambiabile». Sono cose che a noi appaiono normali, ma nel resto del mondo non succedono, non con questa frequenza almeno. La libertà di stampa è un tema complesso e non si esaurisce qui, ma torneremo presto a parlarne, per cercare di capire meglio come stanno le cose.

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