Il consumo critico è un’arma molto potente, in termini simbolici, per affermare le proprie convinzioni etiche in ambito di rispetto dell’ambiente, del lavoro e in generale della salute. Che sia però anche una strategia sufficiente a “cambiare le cose” è però un’illusione che non pare avere conferme. Di questo tipo di comportamento, definito anche “nuovo consumismo”, si sono accorte da anni anche le aziende, che hanno adattato le proprie strategie imprenditoriali in modo da andare incontro alle esigenze del pubblico più esigente, senza rinunciare ai profitti. Si sono soffermati su questo argomenti vari articoli pubblicati su testate straniere (in Italia ne ha parlato di recente Rivista Studio), tra cui uno di Alden Wicker (un lifestyle blogger) su Quartz.
Wicker, citando se stesso nel corso di una conferenza sul consumo critico, dice (traduzione nostra): «Il consumo critico è una bugia. Piccoli passi compiuti da consumatori attenti – riciclare, mangiare locale, comprare maglie fatte di cotone biologico invece che in poliestere – non cambieranno il mondo». È più o meno tutto il contrario di quello che ci andiamo dicendo almeno dagli anni ’80, quando certe questioni hanno cominciato a essere più determinanti per le scelte dei consumatori. Sul tema, Wicker cita anche una pubblicazione scientifica, uno studio del 2012 che mette a confronto l’impatto sull’ambiente di consumatori “green”, che cercano di fare scelte ecologiche, rispetto all’impatto di consumatori comuni. Lo studio non ha trovato differenze significative (una formula usata in questi casi per dire che, se anche minime differenze a livello statistico sono state rilevate, non sono imputabili all’oggetto dell’indagine ma ad altri fattori collaterali).
È bene chiarire un punto: non stiamo dicendo che consumare in maniera consapevole sia inutile o addirittura sbagliato. Ognuno è libero di fare le proprie scelte, in linea con i propri principi etici, e quindi di sentirsi meglio e (per esempio) mangiare frutta e verdure più saporite. Anzi, ci permettiamo di aggiungere che in ambito locale, se c’è una forte componente relazionale a livello di comunità, si possono fare scelte di consumo in grado di influenzare l’economia. Però, appunto, quella locale. L’osservazione della realtà sembra dire invece che queste azioni non possono da sole innescare un cambiamento a livello di sistema. Come dice Halina Szejnwald Brown, docente di scienze e politiche ambientali alla Clark University: «È un gesto. Un segnale significativo del fatto che ti importa dell’ambiente. Ma l’atto di per sé non crea alcuna differenza».
Tutto questo non vuol dire che non ci sia modo di fare la differenza, e questa è la buona notizia. Quella brutta è che le strategie da adottare sono altre, più impegnative e, in un certo senso, più “tradizionali”. Si tratta di investire il proprio tempo in azioni concrete, politiche, e magari i propri soldi a supporto di associazioni e gruppi che fanno attività di lobbying in politica affinché certi principi etici siano rispettati. Wicker fa alcuni esempi, ne citiamo un paio per capirci: «Invece di spendere 200 dollari per comprare un depuratore d’aria, fate una donazione a politici che si impegnano perché l’aria e l’acqua siano pulite. Invece di andare in auto in un frutteto biologico per raccogliere la vostra frutta, usate quel tempo per fare volontariato in un’organizzazione che combatte i food desert (così evitate anche le emissioni del carburante)».
Wicker non dice nulla di nuovo: se credete in qualcosa, lottate per ottenerla (o supportate in maniera diretta chi si impegna in quella lotta). Detta in altro modo, il consumo critico resta una più che legittima scelta individuale (con possibili ricadute più ampie in alcuni casi), ma dobbiamo abbandonare l’illusione che da solo possa portare chissà quale cambiamento. Il mercato è molto più abile e rapido di noi ad adattarsi alla domanda, di quanto noi lo siamo a studiare l’offerta. Una giornalista che si occupa principalmente di moda, Limei Hoang, ha scritto su Business of Fashion un decalogo dei dieci comandamenti del “nuovo consumismo”, intesi come aspetti già ampiamente capiti e analizzati dalle grandi compagnie di moda per rispondere ai nuovi comportamenti dei consumatori. Ne elenchiamo alcuni, che probabilmente troverete familiari: «1. Garantisci trasparenza nelle tue pratiche di business. 2. Dimostra i tuoi autentici valori di brand. 3. Crea processi di lavoro sostenibili. 4. Investi nella tecnologia di vendita al dettaglio (cioè nella vendita online). 5. Aiuta i consumatori a raggiungere i loro obiettivi personali. 6. Adotta prezzi competitivi». Come vedete, la moda ha già capito come cambiare il proprio volto per adattarsi ai nuovi gusti del consumatore consapevole. Ed è bene essere consapevoli anche di questo.
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