Se proprio vogliamo trovare un aspetto positivo nella crisi economica che stiamo attraversando, c’è il fatto che il consumo di suolo in Italia ha rallentato leggermente il suo ritmo. Il problema è cosa succederà quando l’economia riprenderà a crescere. L’indicazione arriva dall’ultimo rapporto Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) su Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici. Oggi viaggiamo infatti alla velocità “ridotta” di 4 metri quadrati al secondo di suolo che diventa in qualche modo “artificiale”. Si tratta in effetti della metà rispetto agli 8 metri quadrati al secondo che si registravano nei primi anni 2000, fino al 2008. Poi è cominciato un rallentamento, tra il 2008 e il 2013, nei quali il consumo di suolo è continuato a un ritmo compreso tra i 6 e i 7 metri quadrati al secondo. Per capirci, stiamo parlando di «aree naturali e agricole [sostituite] con asfalto e cemento, edifici e fabbricati, servizi e strade, a causa di nuove infrastrutture, di insediamenti commerciali, produttivi e di servizio e dell’espansione di aree urbane, spesso a bassa densità». A proposito di densità, è curioso che, nonostante l’Italia sia uno dei Paesi a più bassa natalità in Europa, si continui a edificare a ritmo sostenuto. Segno evidente che c’è una sproporzione tra gli interventi realizzati e le reali necessità, e che le attuali leggi sulla regolazione del consumo di suolo non sono efficaci.
L’Ispra fa una valutazione dei costi che questo fenomeno ha sul bilancio della collettività: «Sfiora il miliardo di euro (oltre 800 milioni) il prezzo massimo annuale che gli italiani potrebbero pagare dal 2016 in poi per fronteggiare le conseguenze del consumo di suolo degli ultimi 3 anni (2012-2015)». Scendendo nel dettaglio, «I costi occulti, quelli cioè non sempre immediatamente percepiti, prevedono una spesa media che può arrivare anche a 55mila euro all’anno per ogni ettaro di terreno consumato e cambiano a seconda del servizio ecosistemico che il suolo non può più fornire per via della trasformazione subita: si va dalla produzione agricola (oltre 400 milioni di ero), allo stoccaggio del carbonio (circa 150 milioni), dalla protezione dell’erosione (oltre 120 milioni), ai danni provocati dalla mancata infiltrazione dell’acqua (quasi 100 milioni) e dall’assenza di impollinatori (quasi 3 milioni). Solo per la regolazione del microclima urbano (ad un aumento di 20 ettari per chilometri quadrati di suolo consumato corrisponde un aumento di 0.6 °C della temperatura superficiale) è stato stimato un costo che si aggira intorno ai 10 milioni all’anno».
Altri dati preoccupanti arrivano dalla valutazione sulla “qualità” del terreno che viene eroso e dall’impatto che il consumo di suolo ha sui territori che distano fino a 100 metri dal confine dell’intervento: «Ancora, la maggior parte del suolo consumato è di buona qualità: lo studio condotto in Abruzzo e in Veneto ha dimostrato che i suoli modificati sono quelli con maggiore potenzialità produttiva. Inoltre la copertura artificiale non deteriora solo il terreno direttamente coinvolto, ma produce impatti notevoli anche su quello circostante. Gli effetti, le perdita di parte delle funzioni fondamentali, si ripercuotono sul suolo fino a 100 metri di distanza. In altri termini, oltre la metà del territorio nazionale (56 per cento) risulta compromesso».
Su Altreconomia, un’interessante intervista a Michele Munafò, ricercatore dell’istituto, aggiunge dettagli che aiutano a capire meglio la gravità della situazione, e soprattutto ciò che è giusto pretendere dalle istituzioni a livello di monitoraggio e e regolamentazione delle attività. «I sindaci sono chiamati a scelte coraggiose, ma auspicabili: lo sforzo non deve guardare solo ad un miglioramento del progetto urbano complessivo, ma limitare l’espansione di nuove aree urbane su suolo agricolo». C’è inoltre perplessità in merito alla riforma attualmente in discussione in Parlamento, perché nel definire cosa sia “suolo agricolo” prevede una serie di eccezioni che porterebbero a non considerare suolo artificiale ciò che di fatto lo diventerà. «È come se ci fosse un “buco nero” nel territorio: aree che non cadono in alcuna definizione, e tutto ciò che dovesse accadervi non rappresenta consumo di suolo. Sono zone non soggette ad alcuna possibilità di controllo, e quindi anche di vincolo».
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