Archiviati i referendum di Lombardia e Veneto, è lecito chiedersi quali conseguenze avranno le due consultazioni, e quali considerazioni si possono fare sul voto. Come spiegavamo in un precedente articolo, questi referendum erano sostanzialmente inutili dal punto di vista delle procedure previste dalla Costituzione per chiedere maggiore autonomia per le Regioni. Si può dunque dire che, fin dalle premesse, l’obiettivo dei due presidenti regionali fosse principalmente ottenere una sorta di mandato politico specifico relativo alla materia dell’autonomia legislativa. Come fa notare però Paolo Balduzzi su Lavoce.info, il rischio più alto era paradossalmente quello di ridurre la legittimazione a inoltrare la richiesta allo Stato. Una vittoria del no, oppure una bassa partecipazione, potevano costituire un punto debole per l’avvio della procedura.

La Costituzione non prevede infatti di dare alcun peso a un’eventuale consultazione popolare per decidere se concedere o meno le autonomie elencate nell’articolo 117. Il discrimine fondamentale sta nei bilanci delle regioni, non nelle urne (o nei tablet). Roberto Maroni e Luca Zaia avevano dunque già tutte le carte in regola per inoltrare la richiesta, e indire i referendum è stata una scelta meramente politica e di propaganda. Per il Veneto il rischio è stato evitato, visto che la partecipazione è stata molto alta (circa il 60 per cento), mentre in Lombardia, al netto dei problemi di registrazione dovuti al sistema di voto elettronico, c’è stata un’astensione piuttosto forte (ha votato il 38,25 per cento degli aventi diritto, molto poco per una regione dove tradizionalmente i cittadini partecipano in alte percentuali alle consultazioni). Scontata invece la stragrande maggioranza di tra chi ha votato in entrambe le regioni. Resta il fatto che, anche in senso negativo, il referendum non sposta più di tanto gli equilibri. Zaia e Maroni potranno comunque procedere con le richieste. Leggiamo dall’articolo di Balduzzi quali sono, nel concreto, i prossimi passi che dovranno essere compiuti: «L’organo regionale competente dovrà approvare una richiesta che sarà poi inviata al governo e che diventerà la base per una trattativa. Se sarà raggiunto un accordo tra le parti, questo sarà sottoposto al giudizio del parlamento, che dovrà approvarlo a maggioranza qualificata».

Un aspetto laterale messo in luce da tutta questa vicenda è che, a sedici anni dalla riforma del Titolo V della Costituzione, il Parlamento non abbia ancora votato una legge che dia applicazione all’articolo 116. Se dovesse essere dunque superato lo step di un accordo col governo (e questo dipenderà dall’analisi dei bilanci, ribadiamo, non dai risultati dei referendum), restano molto incerti i tempi e le modalità con cui il Parlamento sarà tenuto ad approvare (o meno) quanto deciso. Inoltre questo passaggio potrebbe avvenire proprio nel mezzo delle elezioni politiche, il che potrebbe complicare ulteriormente l’esito dell’istanza.

Ciò che purtroppo denota una certa demagogia da parte dei due presidenti regionali, è la promessa ai cittadini di mantenere sul territorio la gran parte delle imposte attualmente versate allo Stato. Si tratta di un argomento privo di reali basi normative, che dunque non ha attualmente alcuna possibilità di essere messo in pratica. Dispiace che in un momento in cui si accentuano le differenze economiche tra Nord e Sud, col primo in ripresa e il secondo sempre più in difficoltà, la politica faccia leva sull’esasperazione delle persone per cercare consenso, senza però proporre soluzioni davvero percorribili ai problemi. «Chiedere al governo prima e alla maggioranza qualificata del Parlamento poi di non trasferire più risorse a Roma significa montare una farsa calcolata, entrare in una trattativa sapendo già che fallirà», scrive Balduzzi.

Sulle conseguenze per i bilanci regionali dell’eventuale decentramento di tutte le materie a legislazione concorrente, l’economista Andrea Filippetti ha provato a calcolarne l’impatto. La conclusione è che tutto dipenderà dalla possibilità o meno che, tra le varie materie, sia decentrata in toto anche l’istruzione (cosa poco probabile): «L’ammontare delle funzioni addizionali da svolgere per le regioni risulta una quota risibile rispetto al totale delle spese regionali (poco più dell’1 per cento, ndr). Se invece si considera anche l’istruzione scolastica (che esclude istruzione universitaria e post-universitaria), la quota sul bilancio regionale sale al 14,5 per cento per la Lombardia e a oltre il 18 per cento per il Veneto».

Non è scontato dunque che, se anche tutte le richieste delle regioni trovassero approvazione, questo si tradurrebbe in una ridotta tassazione per i cittadini e una minore spesa pubblica. «La storia del regionalismo italiano non è un elenco di esempi felici – spiega Balduzzi –. I guadagni di efficienza della spesa a livello locale (legati principalmente ad argomenti di maggiore conoscenza delle esigenze locali) potrebbero annullarsi con la rinuncia ad economie di scala». In tutto questo tira e molla di formule (negli anni si è parlato di devolution, secessione, federalismo, ora di autonomia), la costante è stata purtroppo una politica che evita di dire ai cittadini come stanno le cose in maniera trasparente e completa. La sensazione che rimane è che, quando si parla di questi argomenti, più che ai diritti delle persone si pensi al ritorno politico e mediatico delle iniziative.

(Foto di Arnaud Jaegers su Unsplash)