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Foto di Patrick Rasenberg

Il tema dell’immunità parlamentare torna a farsi sentire nel dibattito politico con una certa regolarità, più o meno con cadenza decennale. Oggi se ne parla perché, come spesso capita nelle riforme più delicate (ma tutte sembrano esserlo in Italia), è spuntato un emendamento all’interno del testo di legge che cambierà l’organizzazione del Senato che prevede l’immunità per i senatori nominati col nuovo sistema. La cosa curiosa è che nel testo iniziale presentato in commissione, a quanto pare, questa disposizione non c’era, salvo poi comparire, senza che nessuno sappia spiegarsi (e spiegarci) come e perché. Poi, chi più chi meno, hanno dato tutti addosso alla fattispecie introdotta dall’emendamento, lavandosene le mani.

È bene ricordare che fino al 1993 deputati e senatori godevano di una tutela ancora maggiore, ossia l’“autorizzazione a procedere”. Per tutelare l’indipendenza degli eletti in politica, i padri costituenti avevano pensato di separare il loro operato dalle ingerenze della magistratura, rendendo necessaria una votazione prima di potere iniziare un’indagine a loro carico. In seguito al processo Mani pulite, la tutela dell’“indipendenza” dei politici si è spostata decisamente verso un’esigenza di controllo dell’attività di questi ultimi, essendosi di molto abbassata la soglia di fiducia accordata loro dai cittadini. Nel 1993 è stata così abolita l’autorizzazione a procedere, mentre poi c’è stato un nuovo intervento normativo nel 2003 per stabilire la procedura di votazione del parlamento nel caso in cui la procura richieda arresti, perquisizioni o intercettazioni. Da allora, l’immunità ce l’hanno tutti, non più nella forma estesa dei primi decenni della Repubblica, ma in quella più soft della necessità di voto del Parlamento per limitare la libertà di un parlamentare.

Il fatto che i nuovi senatori post-riforma conservino o meno questa immunità introduce comunque una disparità, come fa notare anche Massimo Giannini. Se non la conservassero, la disparità sarebbe tra senatori e deputati, perché i rappresentanti delle due camere avrebbero uno statuto giuridico diverso, pur occupando seggi che compongono un’istituzione unica, il Parlamento. Se invece fosse conservata, la loro condizione sarebbe iniqua rispetto ai colleghi degli enti locali. Bisogna infatti ricordare che, secondo l’attuale bozza di riforma, «il Senato sarà composto da cento senatori: 95 provenienti dagli enti locali e cinque nominati dal presidente della Repubblica». Ci saranno quindi 95 componenti (tra consiglieri regionali e sindaci) che avranno uno statuto giuridico diverso rispetto agli omologhi che, non essendo stati mandati in Senato, conservano solo la carica nel proprio ente locale. Aggiungiamo noi che, a essere pessimisti, si può ipotizzare che questa possibilità sia sfruttata in qualche modo per dare una via facile a chi, consigliere regionale o sindaco, veda all’orizzonte la possibilità di un’inchiesta scomoda. Con l’appoggio dell’organo che lo esprime, questi potrà, in fase di rinnovo delle cariche, spingere per essere nominato al Senato, e rendere così molto più complicato per la magistratura perseguire i reati che avesse commesso. Al momento il governo ha derubricato la questione, dicendo che per l’esecutivo «non è centrale» nell’economia della riforma. In realtà una posizione di indirizzo andrà presa, se è vero che si vogliono dare segnali di cambiamento ai cittadini. Una soluzione semplice per mettere d’accordo tutti (almeno dal punto di vista della parità di trattamento) ci sarebbe: abolire l’immunità per senatori e deputati. Qualcosa ci fa però pensare che le cose andranno diversamente.