Di abolire le province hanno parlato in molti negli ultimi anni, ma nessuno ci è mai riuscito. Gli ultimi governi a proporre con forza una riforma di questi enti sono stati quello di Mario Monti nel 2012 e quello di Enrico Letta l’anno successivo. Giovedì scorso è stata approvata la legge voluta dal governo attuale, che nel frattempo è cambiato ancora e ora è presieduto da Matteo Renzi. Anche stavolta i giornali non si sono risparmiati nel parlare di abolizione, superamento, o anche di un addio. In realtà, ovviamente, non si tratta di nulla del genere, visto che per abolire le province bisognerebbe modificare la Costituzione, con tutte le complicazioni che questo implicherebbe. «Il disegno di legge appena approvato – osserva Tito Boeri su lavoce.info – si limita a svuotare le province, a renderle più leggere, togliendo loro cariche (e compensi) direttivi. Come sempre nelle riforme incompiute, il rischio di rimanere a metà del guado, o meglio a mezz’aria, con province più leggere, acefale e svuotate di competenze, ma di fatto immortali, non va sottovalutato». Speriamo non sia il caso della legge in questione, ma dobbiamo ammettere che la cosa non ci sorprenderebbe più di tanto.
Il disegno di legge che porta il nome del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, trasforma le attuali province in enti di secondo livello, «e in prospettiva in pure agenzie a supporto dei comuni e delle unioni di comuni», spiega Roberto Camagni. Al contempo, esso si occupa di stabilire l’organizzazione, le funzioni e le modalità di elezione degli organi delle città metropolitane, previste dall’articolo 114 della Costituzione ma mai istituite di fatto. Una piccola spiegazione di come funzioneranno i nuovi enti la dà lo stesso Camagni: «Il sindaco del comune capoluogo diverrebbe anche il sindaco metropolitano, e il nuovo ente, che si sostituirebbe alla provincia sul suo territorio, sarebbe governato da un consiglio, eletto da – e fra – gli attuali sindaci e consiglieri comunali, e da una conferenza in cui siederebbero tutti gli attuali sindaci. Il sindaco metropolitano attribuirebbe deleghe a consiglieri di sua fiducia; tutte le cariche sarebbero a titolo gratuito, in omaggio all’obiettivo della legge di “ridurre la classe politica” e di limitare la spesa pubblica. A certe condizioni, dopo tre anni si potrebbe procedere all’elezione del sindaco a suffragio universale». Per come sono trattate nella legge, le città metropolitane appaiono però enti con funzioni del tutto simili a quelli delle province, ma con meno poteri.
A fronte di tale riassetto, il governo prospettava un risparmio di circa un miliardo di euro, dovuto tra l’altro alla gratuità delle cariche. In realtà, secondo i conti che si possono trovare su diverse fonti, si può calcolare un risparmio che si aggira attorno alla metà della cifra promessa, e composto da 111 milioni di euro per indennità e gettoni, più i 318,7 milioni per le elezioni annullate del 25 maggio (ma queste ultime in realtà si terranno comunque, visto che erano state accorpate con le europee). Da notare inoltre che a livello di semplificazione burocratica continuiamo a non essere un bell’esempio rispetto ad altri Paesi. Attualmente in Italia sono previste dieci città metropolitane, che saliranno a quindici (ma molti articoli parlano di venti, insomma non è chiaro quante saranno alla fine). Rispetto all’estero, si diceva: «Il paragone è impietoso: in Germania, Regno Unito, Francia, Spagna, Olanda e Austria, con 280 milioni di abitanti e 110 grandi aree urbane, i “governi metropolitani speciali” sono solo dieci, la metà di quelli che l’Italia vuole creare con una popolazione quasi cinque volte inferiore». Se sono questi gli interventi che dovrebbero imprimere una svolta al Paese, c’è poco da stare sereni.