La bozza del decreto legislativo sulle intercettazioni preparata dal Ministero della giustizia e anticipata da Repubblica sta facendo molto discutere gli addetti ai lavori. Tra le novità proposte, infatti, c’è il fatto che nei provvedimenti dei magistrati non siano più riportate citazioni integrali delle intercettazioni, ma solo riassunti delle conversazioni. Niente più virgolette, insomma. Inoltre, si propone di vietare la trascrizione di intercettazioni che riguardino persone non coinvolte in indagini, e che le conversazioni tra avvocato e assistito non figurino neanche nei verbali della polizia.

Secondo l’articolo di Repubblica, uno dei problemi più grossi di questa bozza è che va oltre i confini di discrezionalità previsti dalla legge delega da cui trae origine. «Il decreto legislativo, prima del via libera del solo Consiglio dei ministri, passerà il vaglio consultivo delle commissioni Giustizia di Camera e Senato. Da lì potranno arrivare critiche su un possibile eccesso di delega, perché con un decreto legislativo, e non con una legge, si tocca un meccanismo delicato della dinamica processuale. In mezza pagina, citando i relativi articoli del codice, il Guardasigilli cambia le attuali regole nell’uso delle intercettazioni che oggi vengono ampiamente citate nelle misure della magistratura. D’ora in avanti non sarà più così. Il decreto dispone “soltanto il richiamo al loro contenuto”».

La legge delega infatti, spiega il Post, «faceva soprattutto riferimento alla pubblicazione di intercettazioni ritenute irrilevanti ai fini delle indagini». Il decreto va invece oltre, riferendosi alle modalità di utilizzo delle intercettazioni in generale. Secondo Aldo Morgigni, membro del Consiglio superiore della magistratura del gruppo Autonomia e Indipendenza («la corrente che fa capo a Piercamillo Davigo», scrive il Sole 24 Ore), «Uno dei punti più critici della bozza è quello che “vieta alla polizia giudiziaria di trascrivere le conversazioni”, di cui va riportato solo il contenuto. “Non è chiaro, però, come dovrebbero fare pm, difensori e giudice a capire in seguito quali intercettazioni siano effettivamente irrilevanti. La norma, peraltro, sposta dal giudice alla polizia giudiziaria la scelta sulla rilevanza della prova, con profili evidenti di incostituzionalità”».

C’è chi ha pensato alle conseguenze che questo provvedimento (ammesso che sia approvato nella forma attuale) potrebbe avere per la libertà di stampa. Vincenzo Vita scrive sul Manifesto che «la scelta di imporre la scrittura di un sunto delle conversazioni telefoniche significa contraddire le regole elementari della narrazione, dove sono proprio i particolari apparentemente secondari e soprattutto i virgolettati ad agevolare l’interpretazione. Il resto, quello non reso noto, verrebbe custodito in archivio apposito. I malintenzionati sono, di conseguenza, spinti a maggior ragione a fare “mercato nero” delle parti segrete». Su Repubblica ci si rammarica per le parole che non leggeremo più, ma l’apertura dell’articolo è tragicamente (e involontariamente) comica: «Ci sono intercettazioni che hanno svelato il lato oscuro del potere. “La patonza deve girare”, dissertava al telefono l’ex premier Berlusconi, commentando l’ennesima serata elegante a Palazzo Grazioli».

A volte sembra che le intercettazioni, per i giornali italiani, siano soprattutto dei mezzi per alimentare retroscena privi di sostanza e rilevanza. Inoltre, con grande “libertà di stampa”, si pubblicano virgolettati che trapelano dalle procure non si sa come, senza porsi il problema di come questo, oltre a essere illegale, possa interferire con indagini in corso. Si coinvolgono persone non indagate, colpevoli di aver fatto una pessima battuta al telefono con la persona sbagliata. Chi non ha un suo “lato oscuro” che vorrebbe giustamente mantenere confinato all’ambito privato? Un conto è la rilevanza penale, altra cosa quella “morale”, sulla quale siamo tutti pronti a giudicare (gli altri, mai noi stessi). Nella discussione di questi giorni ha fatto notare il problema il presidente dell’Unione camere penali, Beniamino Migliucci: «”Il tema”, conclude il leader dei penalisti, “non è la stampa dei contenuti, ma chi rivela o fa trapelare i dettagli delle intercettazioni”, e su questo fronte, “non c’è alcun progresso o tentativo di limitare le vere disfunzioni”».

Chiudiamo con uno stralcio da un articolo del Foglio pubblicato a maggio di quest’anno, dove si descrive come funziona il sistema dei virgolettati che finiscono nelle redazioni: «Un giornalista riceve miracolosamente da un carabiniere o dalla cancelleria di una procura o da un altro qualsiasi San Gennaro giudiziario un’intercettazione considerata penalmente irrilevante dal magistrato che si occupa di quell’inchiesta. L’intercettazione, invece che essere infilata nel gabinetto, viene trascritta, conservata e allungata a un giornalista. Il giornalista, in nome della libertà di stampa e del dovere di cronaca, of course, accetta, a schiena dritta, di diventare la buca delle lettere dei professionisti del pizzino giudiziario e dà alle stampe quella notizia (“lo scoop”) sapendo però che pubblicare quella notizia costituisce reato, come previsto dall’articolo 326 del codice penale (rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio). Il giornalista, di solito, se la cava pagando un’oblazione (anche se per un’intercettazione non presente negli atti giudiziari la questione potrebbe essere molto più complicata) e il san Gennaro delle procure, di solito, se la cava sempre perché, in nome del principio canis canem non est, raramente un magistrato punisce chi lavora in altre procure. Tutto questo ormai è prassi».

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