Osservare il fenomeno migratorio da un punto di vista non esclusivamente nazionale, bensì europeo, è fondamentale per capire diversi aspetti del problema. Soprattutto è utile per fare considerazioni in merito alle connessioni tra integrazione e lavoro per quanto riguarda i rifugiati. Prova a farlo Sergio Cebrián, direttore dell’edizione spagnola di VoxEurop, in un editoriale che riportiamo di seguito.
L’inserimento lavorativo dei rifugiati è fondamentale per la loro integrazione nell’Ue. Ma né i governi nazionali né le istituzioni europee sono riuscite finora a dare una risposta adeguata al problema.
Di fronte alla recente ondata migratoria, le risposte delle istituzioni europee si sono rivelate fallimentari come quelle dei governi nazionali, e le divisioni fra gli stati membri si sono manifestate in tutta la loro evidenza nel momento in cui era necessario definire una politica unitaria di accoglienza. La mancanza di coordinamento di fronte all’arrivo di centinaia di migliaia di immigrati – più di 1,5 milioni nel 2015 e meno di 400mila nel 2016 (dati Frontex) – provenienti da zone di guerra, come la Siria, l’Afghanistan e altri paesi asiatici o africani, ha accresciuto i timori dei cittadini europei, già vittime di attacchi terroristici e della crisi economica, aumentandone la sensazione di vulnerabilità.
Ma emerge chiaramente dal Dna europeo che il vecchio continente è stato sempre terra di accoglienza, e che il lavoro di chi arriva, in cerca di un miglioramento della propria condizione economica ma anche della possibilità di godere di uno stile di vita unico al mondo, contribuisce alla crescita dell’Europa.
Per la sua importanza, il tema è stato affrontato in uno studio della Fondazione Bertelsmann, con sede a Berlino. Il rapporto, intitolato “Da rifugiati a lavoratori: cartografia delle misure di sostegno all’integrazione del mercato del lavoro per richiedenti asilo e rifugiati negli stati membri dell’Ue”, fotografa la situazione nei paesi dell’Unione, e segnala un gran numero di carenze, come la mancanza di una strategia a lungo termine, l’assenza di dati affidabili, o l’elevato numero di ostacoli burocratici.
Secondo Iván Martín, professore del Migration Policy Centre dell’Istituto Universitario Europeo (IUE) e coordinatore dello studio, «è un errore considerare i rifugiati come lavoratori appena arrivano: fuggono da guerre o persecuzioni, e spesso non hanno la formazione o l’esperienza lavorativa richieste dai mercati europei». L’esperto segnala inoltre altri problemi come i «numerosi ostacoli amministrativi per accedere al mercato del lavoro, a partire dai permessi di breve durata», e il fatto che «i centri pubblici per l’impiego o i corsi di formazione non vengono adattati alle loro specifiche necessità».
Anche la risposta politica ha palesi margini di miglioramento: secondo Martín, «si è posto l’accento sullo sviluppo di meccanismi di solidarietà fra i paesi europei per affrontare una sfida che è, essenzialmente, europea. Gli stati membri, però, si sono rifiutati di accettarli. E le istituzioni comunitarie non sono riuscite finora a utilizzare le corpose risorse del bilancio europeo, che finanziano l’accoglienza degli immigrati in tutti i paesi, per imporre meccanismi di coordinamento e solidarietà. Tuttavia, nel nostro studio si evidenzia che, trattandosi di una sfida europea, e avendo identificato problemi e persino risposte molto simili nei singoli stati, ci sono tutte le basi per favorire il coordinamento e la cooperazione fra i paesi europei che potrebbero imparare a vicenda dalle rispettive esperienze».
In conclusione, aggiunge Martín: «La cosa più urgente da fare è contrastare il clima sociale negativo che si è creato intorno ai rifugiati nella maggior parte dei paesi europei. La maggioranza di questi rifugiati è molto giovane, l’83 per cento ha meno di 35 anni e ha davanti a sé un’intera vita lavorativa, di modo che investire su questi ragazzi significa anche investire sul futuro dell’Europa».
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