Dopo 15 anni, alla Mostra del cinema di Venezia ha vinto un film italiano, “Sacro Gra”, di Gianfranco Rosi. Per la prima volta in assoluto il Leone d’oro viene assegnato non a un film di fiction ma a un documentario. Due elementi che rendono storica questa 70esima edizione del festival. Non avendo ancora potuto vedere la pellicola in questione, ma volendo comunque dare risalto al fatto, ci affidiamo all’articolo pubblicato da Dario Zonta (direttore creativo del film) su l’Unità e poi ripreso dal blog Minima&Moralia (qui la versione integrale).
Il Leone d’Oro a Sacro Gra dovrebbe essere letto, nella sua dirompente eccezionalità, come un segnale fortissimo che viene dato al sistema del cinema italiano. L’eco del ruggito di questa settantesima Mostra, una volta superata la laguna si trasforma in un urlo di gioia e di rabbia per dire che non solo esiste un “altro cinema” italiano, documentario, sperimentale, innovativo e indipendente, ma che questo può affermarsi in competizioni internazionali scalzando talvolta la concorrenza di produzioni consolidate spesso votate alla reiterazioni di dispositivi consumati.
[…] Chi conosce un poco il cinema di Gianfranco Rosi, sa che il regista di Below Sea Level e El Sicario ama girare in completa solitudine come un one man crew garantendo così quella intimità che serve per arrivare al cuore della relazione con i suoi personaggi. Così è stato per tutti i suoi film, compreso Sacro Gra, anche se la complessità di questo progetto ha richiesto la presenza di una piccola banda di collaboratori intervenuti a vari livelli e in differenti momenti: il paesaggista-urbanista Nicolò Bassetti, l’aiuto alla regia Roberto Rinalduzzi, il montatore Jacopo Quadri e altre figure di professionisti e amici tra cui Stefano Grosso, Giuseppe D’Amato, Fabrizio Federico, Sara Fgaier, Luca Bigazzi, Roberta Ballarini (bello citare la crew, per una volta).
Ora, per un film così particolare come Sacro Gra, affresco inedito di una Roma altrettanto inedita dove la marginalità si trasforma in racconto di vita vera, ci si aspetterebbe che chi vi ha partecipato sollevasse il velo scoprendo chissà quale segreto, chissà quale aneddoto. Eppure sarebbe un errore dire di più di quel che il film dice, proprio per la straordinaria forza di queste persone vere. Cesare l’anguillaro, Paolo il nobile piemontese, Francesco il palmologo, Gaetano l’attore di fotoromanzi, Filippo il principe e tutti gli altri si sono trasformati in personaggi sui quali è passato l’occhio “francescano” (come lo ha definito Bertolucci) di Gianfranco Rosi e le loro vite private è e deve rimanere un mistero.
Ho incontrato alcuni personaggi del film al Lido per la prima volta e l’emozione di questo incontro ha avuto a che fare proprio con il mistero delle loro vite. A cena la sera dell’arrivo, ero seduto vicino a Paolo Regis, il nobile piemontese assegnatario con la figlia Amelia a Capannelle di un appartamento di 20 metri. Un uomo altissimo, dalla lunga barba e gli occhi enormi, dotato di un eloquio forbitissimo e di una cultura altrettanto vasta. Parlandoci ho percepito l’intensità della sua esistenza e la dignità di una vita fatta di alti e bassi. Eppure nel film questa intensità è solo evocata, e il suo passaggio è lieve, come ironico e leggero è il suo incedere.
Rosi non ha solo raccontato un personaggio nel frammento della sua vita, ma ha riportato i contorni di una relazione, quella sua con Paolo e di uno sguardo. È questo ciò che s’afferma in Sacro Gra: uno sguardo che si fa intenzione di scrittura, racconto di una speciale relazione tra regista e personaggi. Chi non conosce il percorso di Rosi -in Italia sono in molti, all’estero molti di meno- potrebbe cadere nel dubbio che il film usi formule “finzionali” per raccontare il reale. Spesso Rosi risponde a questa accusa dicendo: non è importante la differenza tra reale e finzione, ma la domanda da porsi è se quel che si racconta è vero o falso. È certo necessario un atto di fiducia per credere vero quel che viene mostrato come reale, ma è altrettanto certo che Rosi riesce a raggiungere un inimmaginabile grado di intimità con i suoi personaggi. Non a caso loro si affidano a lui con una naturalezza tale da sembrare paradossalmente intenzionale.
Ora che questo premio arriva a illuminare in Italia il percorso di Rosi, molti hanno annunciato come una novità l’incedere del documentario. Eppure è bene ricordare che se oggi Rosi vince è anche perché molti altri produttori e registi hanno preparato il terreno portando avanti progetti importanti spesso nella completa solitudine e nell’indifferenza dei media e delle istituzioni. Speriamo che da domani sia più facile per chiunque abbia in testa un film di “altro cinema” trovare valide sponde istituzionali e finanziarie. Anche a questo serve un premio. […]