Articolo 34 della Costituzione italiana, primo comma: «La scuola è aperta a tutti». Uno dei punti di forza della nostra Carta fondamentale è la semplicità degli enunciati. Il principio qui espresso è incompatibile con le cose che abbiamo letto in questi giorni, a proposito di alcuni licei che, nella scheda di autovalutazione della piattaforma “Scuola in chiaro”, vantavano di non avere tra gli iscritti studenti poveri, stranieri, o rom. Corrado Zunino, in un articolo pubblicato su Repubblica l’8 febbraio, ha riportato alcuni passaggi particolarmente discriminatori.

Così l’“Ennio Quirino Visconti” di Roma: «“Tutti, tranne un paio, gli studenti sono di nazionalità italiana e nessuno è diversamente abile” . La percentuale di alunni svantaggiati “per condizione familiare è pressoché inesistente”, mentre “si riscontra un leggero incremento dei casi di Dsa”. Sono i Disturbi specifici di apprendimento. Il finale è una conclusione che spiazza: “Tutto ciò”, e si intende la quasi assenza di stranieri e la totale assenza di poveri, “favorisce il processo di apprendimento” . Il buon apprendimento dei figli della buona borghesia di Roma Centro. Al Visconti, “dove la maggior parte delle risorse economiche proviene dai privati, in primis le famiglie”, dove la presidente della Camera Laura Boldrini ha tenuto lezioni sulle fake news, la “quota studenti con cittadinanza non italiana” è pari allo 0,75 per cento del totale. Lo dicono le tabelle. Solo che lo 0,75 per cento di 669 studenti non fa “un paio”, ma cinque. E la quota di iscritti con “famiglie svantaggiate” è dello 0,8 per cento, un po’ più di “pressoché inesistente”. Ecco, se si esce dalla pagina vetrina, quella che serve a far propaganda e richiamare iscrizioni, si scopre che i numeri del Visconti su stranieri e poveri sono più alti».

Toni simili al liceo classico “D’Oria” di Genova: «“Il contesto socio-economico e culturale complessivamente di medio-alto livello e l’assenza di gruppi di studenti con caratteristiche particolari dal punto di vista della provenienza culturale (come, ad esempio, nomadi o studenti di zone particolarmente svantaggiate) costituiscono un background favorevole alla collaborazione e al dialogo tra scuola e famiglia, nonché all’analisi delle specifiche esigenze formative nell’ottica di una didattica davvero personalizzata”. Senza altre questioni da affrontare, sembra di capire, ci possiamo dedicare ai limitati e ricchi studenti indigeni. Infatti: “Il contributo economico delle famiglie sostiene adeguatamente l’ampliamento dell’offerta formativa”».

Ancora, il Giuliana Falconeri, Roma Parioli: «“Gli studenti del nostro istituto appartengono prevalentemente alla medio-alta borghesia romana. La spiccata omogeneità socio-economica e territoriale dell’utenza facilita l’interazione sociale”. Ci si parla solo tra pari grado, e poi: “Non sono presenti né studenti nomadi né provenienti da zone particolarmente svantaggiate”. In questa scuola, tuttavia, c’è una questione particolare: “Negli anni sono stati iscritti figli di portieri e/o custodi di edifici del quartiere. Data la prevalenza quasi esclusiva di studenti provenienti da famiglie benestanti, la presenza seppur minima di alunni provenienti da famiglie di portieri o di custodi comporta difficoltà di convivenza dati gli stili di vita molto diversi”». Già, il noto problema dei figli dei custodi, antropologicamente incompatibili con i rampolli della media borghesia.

Capiamo l’esigenza degli istituti di attrarre studenti, in una logica sempre più simile a quella di un’azienda e sempre meno a quella di una scuola pubblica. E potremmo dilungarci in lunghi commenti su come dovrebbe e non dovrebbe essere la scuola, per dare concretezza a quel semplice enunciato dell’articolo 34.

Lasciamo invece la parola a Franco Lorenzoni, che di mestiere fa il maestro elementare, ché nelle sue riflessioni (e domande) c’è tanto di quel materiale che potrebbe bastare ai rispettivi dirigenti scolastici per chiedersi se hanno fatto bene a scegliere una comunicazione discriminatoria (e l’approccio didattico che ne consegue) per promuovere i loro istituti: «Siamo certi che lavorare in classi omogenee migliori la costruzione di quelle competenze di cittadinanza che siamo chiamati a costruire con ragazze e ragazzi? Dati internazionali ci dicono che abitare per anni lo stesso spazio con ragazzi portatori di disabilità sviluppa notevolmente le capacità sociali. Non solo, quando insegnanti capaci sanno organizzare un contesto realmente inclusivo, anche sul terreno degli apprendimenti si può trarre grande giovamento dalla presenza in classe di chi incontra difficoltà di varia natura. E allora perché una classe che raccolga allievi con provenienze etniche e linguistiche varie e difformi non potrebbe costituire un terreno propizio alla costruzione delle conoscenze? Certo, la composizione disomogenea che caratterizza tanta parte delle nostre classi richiede, da parte di noi insegnanti, sforzo, creatività e una grande capacità di metterci in gioco. Ma non è proprio questa la sfida culturale più rilevante del nostro tempo?».