Come annunciato a metà agosto, l’Italia sta per mandare un nuovo ambasciatore al Cairo, capitale dell’Egitto. La decisione di richiamare il rappresentante diplomatico dal Paese africano era arrivata un anno e mezzo fa, a seguito delle resistenze del governo egiziano nel collaborare con l’Italia alle indagini sulla morte di Giulio Regeni. Nonostante non siano stati fatti passi avanti significativi nell’individuare i responsabili della morte del ricercatore italiano, il governo ha ritenuto opportuno riprendere i “normali” rapporti tra il nostro Paese e l’Egitto. In realtà, le relazioni diplomatiche tra i due Paesi non si sono mai interrotte, per ragioni di opportunità politica.

Tutto questo nonostante si sappia da tempo che il governo egiziano è in qualche modo coinvolto nell’uccisione di Regeni, e nonostante la riluttanza dello stesso a collaborare alle indagini. Fino a qualche mese fa si trattava di sospetti, ma ci sono ormai indizi concreti del fatto che i servizi di sicurezza egiziani abbiano avuto un ruolo decisivo nel sequestro e nell’uccisione (avvenuta dopo tortura) del ricercatore. A metà agosto, un articolo di Declan Walsh per il New York Times Magazine (disponibile qui in italiano) ha pubblicato una ricostruzione di ciò che si sa finora sul caso, che dice esplicitamente che gli Stati Uniti passarono all’Italia informazioni certe su questo aspetto:

«Nelle settimane dopo la morte di Regeni, gli Stati Uniti ottennero informazioni d’intelligence esplosive dall’Egitto: le prove che la sicurezza egiziana aveva sequestrato, torturato e ucciso Regeni. “Avevamo prove incontrovertibili della responsabilità di funzionari egiziani”, mi ha detto un funzionario dell’amministrazione Obama, uno dei tre ex funzionari che hanno confermato questa informazione. “Non c’erano dubbi”. Su raccomandazione del dipartimento di Stato e della Casa Bianca, gli Stati Uniti passarono questa conclusione al governo Renzi. Ma per evitare di identificare la fonte, gli americani non condivisero l’informazione originale: non dissero quale agenzia della sicurezza egiziana credevano ci fosse dietro la morte di Regeni. “Non era chiaro chi aveva dato l’ordine di sequestrarlo e, probabilmente, ucciderlo”, mi ha detto un altro ex funzionario». (Nel giornalismo anglosassone, l’affidabilità e la protezione delle fonti sono aspetti quasi sacri della professione, dunque le parole di Walsh non sono da prendere alla leggera, come faremmo leggendo uno dei tanti “retroscena” pubblicati spesso da giornali italiani).

A commento della decisione del governo italiano, il presidente di Amnesty Italia Antonio Marchesi ha rilasciato dichiarazioni molto dure: «Troviamo […] discutibile la ricostruzione delle ragioni per cui un anno e mezzo fa venne richiamato temporaneamente l’ambasciatore italiano al Cairo, ragioni che secondo il ministro Alfano si sarebbero limitate a ottenere una maggiore cooperazione giudiziaria. Ammesso che questo risultato sia stato raggiunto, cosa che nella sostanza è tutta da verificare, le dichiarazioni ufficiali dell’aprile 2016 parlavano dell’ottenimento della verità sull’omicidio di Giulio Regeni. Ritenere che qualche riunione in più tra le procure e l’invio di alcuni documenti (per di più, ancora prima che questi fossero tradotti dall’arabo) sia stato motivo sufficiente a rimandare l’ambasciatore al Cairo, è francamente sorprendente».

Nei giorni scorsi c’è stata un’audizione del ministro degli Esteri Angelino Alfano presso le commissioni Esteri di Camera e Senato. Nelle ore successive, Luigi Manconi ha scritto un articolo in cui si dice piuttosto deluso dall’andamento della discussione, soprattutto per il modo in cui si è parlato di Regeni in quell’occasione. «Giulio Regeni, nel corso dell’audizione, ha subìto quel meccanismo che abbiamo chiamato di “doppia morte”. È un dispositivo che è stato applicato, in numerose circostanze, nei confronti di vittime di abusi e violenze da parte di uomini e apparati dello Stato. Chi ne ha patito i danni si è ritrovato oggetto, nel corso dell’inchiesta e del dibattimento, di una vera e propria deformazione della sua identità. Alla morte fisica segue un processo di degradazione della persona, della sua biografia e della sua vicenda umana. Lentamente, la vittima rivelerà comunque una sua colpevolezza (e chi può dirsi totalmente innocente?). È quanto, in ultimo, accade a Giulio Regeni. Da molti degli interventi nel corso della seduta, si ricavava la sensazione quasi palpabile che il ricercatore italiano sia stato – a sua insaputa, per carità – una spia britannica: presumibilmente torturato e ucciso nella stessa Cambridge, in una oscura sentina di quell’Ateneo, al fine di metterlo a tacere».

C’è poi il sospetto, francamente desolante, che l’atteggiamento della politica nei confronti di questo tragico caso sia dovuto proprio alla trasparenza della vittima: «La figura così limpida e fascinosa di Giulio Regeni suscita, in alcuni segmenti della mentalità comune, un sentimento assai simile a una sorta di sottile invidia. Può sembrare tragicamente grottesco, se solo si pensa al corpo straziato di Regeni. Eppure credo che sia così: lo spirito del tempo porta con sé un rancore e una voglia di rivalsa che rendono insopportabile la limpidezza di quelle figure che si trovano a essere, nell’agonia e nella morte, simbolo intenso di valori forti. Da qui, l’irresistibile pulsione a lordarle, quelle figure, o almeno a ridimensionarle per ridurle alla nostra mediocre misura».

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