Dopo i proscioglimenti dei giorni scorsi, dal processo sbrigativamente definito “Mafia Capitale” è sparita, a un tratto, la mafia. Pur restando in corso il processo “madre”, che vede imputate 46 persone per vari reati anche molto gravi, 113 su 116 indagati di un altro filone d’indagine sono stati prosciolti. Tra questi nomi grossi come l’ex sindaco Gianni Alemanno (che resta sotto processo per corruzione e finanziamento illecito). Insomma, la partita è ancora aperta e molto lunga, ed è presto per dire (se mai si potrà) che il processo si sia “sgonfiato”. Certo però bisogna ammettere che i giornali sono stati piuttosto frettolosi nel sottolineare la connotazione mafiosa dei reati contestati agli imputati. Alla base delle indagini c’è il sospetto che a Roma ci sia un sistema di controllo che riguarda appalti, aste, riciclaggio di denaro, false fatturazioni, ecc. Un piccolo universo di illegalità in cui alcuni decidono e gli altri si adeguano.
Come aggravante, si ipotizzava anche il metodo mafioso, ma le indagini non hanno confermato questo aspetto, almeno per i 116 di cui sopra. Il capo d’imputazione relativo all’articolo 416 bis del codice penale continua a pendere sulla testa di 14 dei 46 imputati del processo principale: «Di questi – scrive Repubblica.it – l’unico politico è l’ex capogruppo Pdl in Regione Luca Gramazio e l’unico amministratore pubblico è Franco Panzironi, uomo chiave della giunta Alemanno». Bisognerà attendere mesi per stabilire come stanno effettivamente le cose, ma intanto ci sentiamo di dover riflettere sull’opportunità dei media di titolare per mesi su “Mafia capitale”.
Forse questo processo farà emergere dati importanti per capire il modo in cui hanno funzionato la politica e l’economia romane in questi anni. Ma probabilmente non è l’unico “pentolone” che attendeva di essere scoperchiato. L’impazienza (e l’insistenza) con cui si è utilizzata la parola “mafia” per definire questo processo rischia di fare il gioco di coloro che vorrebbero, per interesse o convinzione, che dalle indagini non emergesse nulla di particolarmente rilevante a carico degli imputati. «Hai visto, tutti a parlare di mafia e invece mafia non era». Certo però a leggere gli altri capi d’imputazione (per i quali le sentenze sono ancora lontane, fino a quel momento gli imputati restano innocenti) viene da mettersi le mani nei capelli. Ma questo passa in secondo piano. L’esigenza di narrazione della stampa italiana (che ha alimentato anche quella straniera) rischia di indebolire un processo che ha ancora molti punti oscuri da acclarare. Per non parlare delle conseguenze politiche dell’indagine, che si sono già consumate a prescindere dagli esiti giuridici.
Ora arriva la fase in cui si scontreranno quelli che «l’avevo detto» contro chi «va bene, non si può parlare di mafia, ma di quello si tratta». Opinioni su opinioni che fanno perdere di vista i fatti e le vicende effettivamente accaduti. Sono molto più le prime a orientare i voti e i programmi politici, perché chi offre la propria interpretazione della realtà fa più presa sulle persone rispetto a documenti ufficiali compilati in un impenetrabile italiano burocratico. Mattia Feltri, su La Stampa, già a ottobre 2016 faceva notare come «A quasi due anni dall’inizio del grande scandalo, della scoperta della piovra coi tentacoli su Roma, resta un pugno di imputati con infiltrazioni sempre più ipotetiche e sempre più rare nell’amministrazione, e restano centinaia di articoli da stracciavesti buoni a gonfiare gli archivi, e resta qualche libro di successo e qualche film d’impatto. Restano, soprattutto, leader del Pd e del Movimento cinque stelle che continuano a rinfacciarsi rapporti con mafia capitale, cioè rapporti col nulla, che è la cifra dei nostri tempi». Di diverso avviso e stato d’animo il giornalista Roberto Galullo, che sul suo blog per il Sole 24 Ore sintetizza così: «Se mafia è – come è – governo di interessi di pochi alle spalle degli altri, con l’intimidazione fisica e la paura psicologica, la violenza fisica e quella verbale, il detto e (soprattutto) il non detto, l’omertà e il ricorso al potere o alla posizione delle cariche occupate, l’uso delinquenziale della politica, dei professionisti, del giornalismo, di pezzi deviati dello Stato (magistratura compresa), il riparo di logge deviate, ebbene, Roma è la quintessenza della mafia moderna rispetto alla quale lo Stato è volontariamente sempre un passo indietro».
Dunque continuare a chiamare questo processo “Mafia capitale” è comunque un errore, lo è stato fin dall’inizio. Forse “lasciare lavorare la magistratura” significa anche evitare certi titoli, quando non sono opportuni, o come in questo caso semplicemente sbagliati.
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