«Quello che ho cercato di far notare è che da qualche anno a questa parte, quando tutto tace si abbatte su di noi un’onda di messaggi: sms, mail, uno tsunami più molesto di tutti i rumori circostanti, perché, diversamente da loro, è rivolto a noi, proprio a noi, come il messaggio dell’imperatore. Ecco dunque che abbiamo realizzato il capolavoro: massimo silenzio, interrotto soltanto dal ticchettio dei tasti e dalle vibrazioni dei telefonini, e massima dispersione, fine di qualunque raccoglimento». Così Maurizio Ferraris su Repubblica di ieri, pagina 59. La riflessione si riferisce a un intervento del filosofo nel corso di una “maratona del silenzio” (violato, dato che le conferenze non possono essere mute) organizzata a Torino. L’evento è stato organizzato dall’Accademia del silenzio, di Duccio Demetrio, insegnante di filosofia dell’educazione e della narrazione all’università La Bicocca di Milano. Al di là dell’iniziativa in sé, interessante purché la si prenda con la giusta dose di ironia -per dirne una, erano previste «passeggiate diurne (tutti in silenzio, vietate le macchine fotografiche, solo penne e taccuini)», l’osservazione di Ferraris è più che pertinente. Visti, ma soprattutto sentiti, i tempi che corrono (facendo un gran baccano).
La preziosità del silenzio non è mai stata evidente come oggi. Siamo ancora fermi all’horror vacui aristotelico. Ma stavolta non è la natura a riempire tutto per paura del vuoto, bensì l’homo digitalis, furioso torturatore di tastierini alfanumerici (sempre più spesso sostituiti da schermi, ci pensa l’altoparlante a simulare il ticchettio). Immaginiamo l’imbarazzo e il disagio prodotto dalla prima “esecuzione” di “4′ 33””, il brano di John Cage il cui contenuto consta appunto di circa quattro minuti e mezzo di silenzio (per pianoforte). Tornando alla realtà di oggi, ci sono altri due silenzi, entrambi dolorosi. Uno è il silenzio che non si rispetta, quello per le vittime, uccise due volte da trame per talk-show televisivi dal finale tragico. E non importa chi sia l’assassino, se il maggiordomo (ma esistono ancora?) o il compagno di merende, perché il vero carnefice resta lui, lo share. Vi sono poi i silenzi che non vorremmo mai sentire, come quelli dei teatri che chiudono perché manca il pubblico. Complice una politica sorda (se il silenzio non si trova fuori, tanto vale crearselo da soli smettendo di ascoltare) alla domanda di cultura della società. Eccolo il messaggio del popolo, rivolto all’imperatore: chi semina vento, raccoglie silenzio. Questo il risultato di trent’anni di non gestione del patrimonio culturale italiano (già, non è l’anno domini 1994 l’origine di tutti i mali nostrani).