Nel Regno Unito è in vista un grosso cambiamento per quanto riguarda gli stereotipi di genere riprodotti nelle pubblicità. La Advertising Standards Authority (Asa) ha infatti prodotto un documento sul tema, in cui riporta i risultati di studi e ricerche sulle conseguenze di questo fenomeno. Il report contiene anche i risultati di un sondaggio demoscopico fatto per capire quali sono le percezioni del pubblico sugli stereotipi di genere negli spot pubblicitari, e quali pensa possano essere i rischi legati a questi.
Bisogna chiarire che non si tratta, come hanno scritto alcuni, di un mero appiattimento dei contenuti secondo il principio del politically correct. La riflessione è più profonda e si riferisce innanzitutto a quelle pubblicità in cui si suggeriscono dei “percorsi obbligati” nel percorso di uomini e donne. In uno spot di un latte in polvere, per esempio, si vedono una bambina che sembra destinata a diventare ballerina classica, e un bambino per cui è già scritto un futuro da grande matematico. Si tratta in questo caso di associazioni totalmente gratuite, che vanno a rafforzare alcuni stereotipi, e che possono avere conseguenze negative per ciò che riguarda la capacità dei giovani di immaginarsi da grandi in ruoli diversi da quelli che la società cerca di imporre loro. Purtroppo si sbaglia Antonio Gurrado quando scrive questo sul Foglio: «Lo spot più naïf che possiate immaginare – lui torna a casa dal lavoro, lei gli fa trovare la cena pronta – sarà presto fuorilegge. […] C’è del metodo in questa follia, tanto che per evitare di far torto a qualcuno l’Asa allarga a dismisura il concetto di stereotipo; nel caso sopra, ad esempio, verrebbe ritenuto offensivo non solo il fatto che a cucinare sia proprio una donna ma anche il fatto che a lavorare sia proprio un uomo. Tutto ciò che somiglia a un luogo comune è una minaccia alla correttezza politica e va soppresso».
Nelle conclusioni del documento Asa c’è proprio un chiarimento al riguardo, che fa capire con degli esempi che si è andati molto più a fondo nel delineare il problema (traduzione nostra): «Sarebbe inappropriato e inverosimile impedire alle pubblicità, per esempio, di rappresentare una donna che fa le pulizie, ma i nuovi standard sugli stereotipi di genere si potrebbero applicare ai casi più problematici, per esempio: uno spot che mostra membri di una famiglia fare disordine, mentre solo una donna ha il compito di rimettere a posto; uno spot che una certa attività sia inappropriata per una ragazza perché associata per stereotipo a un ragazzo, o viceversa; uno spot che mostra un uomo non in grado di fare i conti con semplici attività familiari o di pulizia della casa». Prendersela con il politically correct è dunque inappropriato.
Anche in Inghilterra non è mancato chi abbia manifestato perplessità di fronte all’iniziativa, come il giornalista e personaggio televisivo David Mitchell, che in un suo articolo per il Guardian ha sostenuto che in fondo quello degli stereotipi di genere non è il problema più grave nel mondo della pubblicità. Per una volta c’è un termine italiano (che non ha un corrispettivo in inglese) che descrive questo atteggiamento: benaltrismo. «I principi secondo cui l’Asa ha operato finora – scrive Mitchell – prevedevano che le pubblicità fossero “legali, nei limiti della decenza, oneste e veritiere”. Ma spesso non lo sono. Quasi sempre sono legali e veritiere. Raramente dicono cose diffamatorie o mentono esplicitamente, e se lo fanno non hanno vita lunga. Ma decenza e onestà non sono certamente difese in un ambiente in cui, per esempio, le compagnie che offrono prestiti senza garanzie pubblicizzano liberamente i loro prodotti catastrofici. Impedire loro di perpetuare stereotipi di genere mentre li si lascia continuare a trascinare le persone in un abisso di debiti è come giocherellare mentre Roma brucia – o proibire la perpetuazione di stereotipi di genere mentre Roma brucia».
Il ragionamento tiene fino a un certo punto, visto che si mischiano due problemi diversi. Un conto è proteggere i cittadini da forme di pubblicità ingannevoli, un altro è occuparsi delle conseguenze nel medio-lungo termine della continua esposizione (soprattutto dei giovani) a spot che sembrano suggerire loro cosa possono e non possono fare, come è bene apparire in un certo contesto, ecc. Problemi completamente diversi e non confrontabili su una scala di valori.
Vi è chi ha visto anche gli aspetti positivi di questa iniziativa, come Rosamaria Bitetti e Federico Morganti, che su Strade spiegano la loro interpretazione del rapporto: «Non sono preoccupati [all’Asa] dall’incapacità degli adulti di mettere in discussione gli stereotipi, ma dall’impatto che essi possono avere su chi ha meno strumenti per difendersi. E non è una preoccupazione immotivata: il confidence gap – la differenza di sicurezza in se stessi tra maschi e femmine – si allarga tipicamente negli anni dell’adolescenza. Anche senza che lo stato stabilisca cosa si può fare e cosa no, la società può trovare dei sistemi per dire “questo non è accettabile”. Il caso dell’ASA e delle pubblicità sessiste dimostra che il cambiamento può avvenire, e in meglio, con soluzioni che giungono dal basso. Senza passare per l’imposizione di un legislatore». L’Asa è infatti «un’organizzazione privata, finanziata da imposte volontarie da parte degli attori del mercato, con lo scopo di definire le regole di condotta degli operatori stessi e assicurarsi che siano rispettate. […] Le sue sanzioni hanno carattere non coercitivo e sono accettate dalle imprese che aderiscono all’organizzazione e ne approvano gli scopi».
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