Immagine elaborata da Charis Tsevis

Il sito internet Philanthropy.com ha riassunto in due tabelle, schematiche e precise, l’atteggiamento verso il non profit dei due candidati alla Casa Bianca, ossia l’attuale presidente Barack Obama e lo sfidante Mitt Romney. Non è per sfuggire alle questioni di “casa nostra” che volgiamo lo sguardo oltre oceano, bensì per cogliere da ciò che avviene negli Stati Uniti un’occasione di confronto su ciò che accade qui da noi. Analizziamo in questo articolo ciò che ha fatto Obama nei primi quattro anni del suo mandato, e ciò che annuncia per i prossimi quattro, in caso di rielezione.

Per il non profit, riporta il sito americano, egli ha sostenuto e firmato l’Edward M. Kennedy Serve America Act, per allargare i membri degli AmeriCorps (programma federale che si occupa di erogare servizi che vanno dall’istruzione alla salvaguardia dell’ambiente) da 75mila a 250mila entro il 2017. Ha creato il Social Innovation Fund, un nuovo programma che supporta l’espansione del non profit e finanzia le associazioni per il recruiting e la formazione di nuovi volontari. Ha creato il White House Office of Social Innovation and Civic Participation, entità interna alla Casa Bianca per la promozione del volontariato, e il White House Council for Community Solutions, un osservatorio composto da manager del non profit che redige annualmente un rapporto sui modi in cui le onlus e altri soggetti possono collaborare per garantire ai giovani lavoro e istruzione.

Sul tema della salute, è nota la riforma che ha ampliato e facilitato l’accesso alle polizze assicurative che negli Usa fanno da tramite tra cittadino e ospedali. Ha introdotto nuove regole sulle attività di lobbying, che limitano la possibilità dei lobbisti, anche quelli del non profit, di entrare nella pubblica amministrazione. Ha istituito il Promise Neighborhoods program, che finanzia progetti sociali nei quartieri più difficili, stanziando a questo scopo 60 milioni di dollari. Ha sostenuto la proposta di realizzare un grande piano di finanziamenti nazionali (787 miliardi di dollari) a favore del non profit, del servizio civile nazionale, delle arti, della sanità, dell’edilizia popolare, di Medicaid e dei servizi sociali.

Ha proposto di limitare gli sgravi fiscali sulle donazioni dei singoli con reddito superiore a 200mila dollari annui (250mila in caso di reddito familiare) per contrastare il deficit dello Stato, attirando su di sé le critiche di molti esponenti del terzo settore. Per quanto riguarda le tasse, ha annunciato un aumento, sempre per rientrare dalla situazione di deficit del bilancio statale. Ancora, tra gli annunci elettorali, è in arrivo la fine degli sgravi per i redditi superiori ai 250mila dollari annui, introdotta da Bush, mentre la tassazione sui redditi oltre il milione di dollari sarà portata al 30 per cento. Le donazioni dei cittadini più ricchi non avranno diritto ad agevolazioni e saranno aumentate le tasse sulle proprietà immobiliari.

Interessante, al contempo, un’altra serie di promesse, come quella di ritoccare al rialzo le quote destinate al National Endowment for the Arts and National Endowment for the Humanities, il fondo che finanzia l’arte e la cultura, o quella di innalzare del 2 per cento gli aiuti internazionali allo sviluppo. Nessun taglio ai programmi di lotta alla povertà e ai servizi sociali, e nemmeno al servizio civile (Corporation for National and Community Service), anche se Obama prevede di chiudere due dei suoi programmi e incrementare il budget solo dell’1,3 per cento.

Insomma, nonostante l’aria pesante che si respira anche da quelle parti, gli Stati Uniti hanno un atteggiamento ambivalente: da una parte un occhio al bilancio, a cui si deve l’aumento delle tasse e una politica generale rivolta al rientro del deficit; ma al contempo un atteggiamento di spinta verso il terzo settore che sembra testimoniare una reale fiducia (molto più evidente che dalle nostre parti) nelle sue possibilità di sviluppo e di reale contributo al superamento della crisi.