L’opposizione al Ttip, il trattato di libero scambio tra Unione europea e Stati Uniti, si sta allargando sempre di più tra la società civile. Una petizione lanciata da un comitato transnazionale ha superato i 3milioni e 400mila firme, e proteste pacifiche sono in fase di organizzazione in vari Paesi. Tra questi anche l’Italia, dove sabato 7 maggio è stata indetta una manifestazione a Roma, appoggiata da esponenti del mondo associazionistico e da una parte della politica.
L’accordo dovrebbe portare alla creazione della più grande area di libero scambio del mondo, un unico mercato aperto i cui attori sarebbero gli Stati Uniti e i Paesi dell’Unione europea. Secondo gli oppositori al trattato, le previsioni di aumento del pil e dei posti di lavoro sono solo una scusa per creare consenso, ma il vero obiettivo è tutelare gli interessi delle multinazionali. Ultimamente il primo ministro francese François Hollande ha espresso un parere negativo alla firma del trattato, dicendo che esso «viola principi essenziali dell’attività agricola, della cultura e della reciprocità di accesso agli appalti pubblici». Gli stessi punti critici evidenziati dai numerosi oppositori al trattato, che non sembrano però interessare il governo italiano, che fin dal 2014 non vede l’ora di arrivare alla firma finale.
Come abbiamo cercato di spiegare anche in passato (qui per esempio), le criticità del Ttip (Partenariato transatlantico sul commercio e gli investimenti) sono molteplici. Innanzitutto c’è un problema di trasparenza, visto che gli incontri da tre anni a questa parte si susseguono senza che per la società civile ci sia la possibilità di accedere facilmente ai documenti relativi alle trattative. Un aspetto che è stato “forzato” in questi giorni da Greenpeace, che ha pubblicato i Ttip leaks, un documento di 248 pagine che contiene una parte dei contenuti di cui si sta discutendo. Entrando nel merito, un argomento molto critico, sul quale si è giunti a una fase di stallo, riguarda il settore alimentare e il cosiddetto “principio di precauzione”.
Come spiegavamo nell’articolo citato, l’Unione europea ha norme molto più restrittive a proposito della qualità degli alimenti, con un monitoraggio della produzione che prevede il controllo di tutte le fasi della filiera. Questo ovviamente implica dei costi per i produttori, ma garantisce il cittadino sulla sicurezza di ciò che consuma. Al contrario, negli Stati Uniti l’attenzione è tutta posta sul prodotto finale, la cui eventuale tossicità deve essere comprovata scientificamente prima di dare luogo a un eventuale ritiro dal mercato. Il discorso riguarda anche la macellazione, visto che, come scrive Bruno Saetta su Valigia Blu, «negli Usa è ammessa la sterilizzazione dei polli morti in acqua di cloro, procedimento che non è considerato sicuro in Europa. Altra preoccupazione riguarda il vasto uso di ormoni nella carne bovina e suina, oppure la clonazione di animali da macello e l’utilizzo di prodotti agricoli geneticamente modificati». Non che ci si debba opporre sempre e comunque al cambiamento, ma in questo caso ci sembra che, da un adattamento della normativa europea in senso “americano”, a guadagnarci sarebbero solo i produttori statunitensi, mentre le aziende europee, nonché la salute dei cittadini, ci rimetterebbero. Un aspetto molto critico, restando in ambito alimentare, è la tutela dei prodotti Doc e Igp, a cui l’Italia tiene molto per ovvie ragioni.
Altra questione controversa è la risoluzione delle controversie tra investitore e Stato (Investor-State dispute settlement, Isds). «Il trattato – spiega Internazionale – permetterebbe alle aziende di fare causa ai governi portandoli di fronte a un collegio arbitrale. In questo modo, sostiene chi critica il Ttip, l’Isds darebbe alle multinazionali la possibilità di ostacolare qualsiasi legge che va contro i loro interessi. L’esempio più citato è quello della Philip Morris, che ha fatto causa ai governi di Uruguay e Australia».
La firma dell’accordo in tempi brevi è messa a rischio dall’imminente scadenza del mandato presidenziale di Barack Obama, nonché dalle tornate elettorali in programma in Europa da qui ai prossimi due anni. In sostanza, se non si trova un accordo definitivo entro l’estate, è probabile che la decisione slitti al 2020. Dopo la firma, inoltre, devono arrivare le ratifiche dei Parlamenti di tutti e 28 gli Stati Ue, quindi l’entrata in vigore potrebbe anche non avvenire mai. E pensare che qualcuno assicurava che la firma del Ttip sarebbe arrivata entro la fine del “semestre italiano” alla presidenza del Consiglio dell’Unione europea. Era il 2014.
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