I social network hanno cambiato il nostro modo di interagire col mondo. Difficile dire se in meglio o in peggio, e la questione è talmente complessa che probabilmente l’unica cosa su cui si può essere tutti d’accordo è che “dipende dai punti di vista”.
Se pensiamo a Facebook, di gran lunga il social network tuttora più usato e il primo a diffondersi in maniera capillare fino a diventare un fenomeno globale, è difficile paragonare ciò che è oggi con ciò che era nei suoi primi anni di vita. Dopo una prima fase, in cui l’interazione con la propria cerchia di contatti dentro e fuori dalla piattaforma era al centro dell’attività, negli anni l’esperienza dell’utente è cambiata radicalmente. Oggi il modello di business di Facebook è basato largamente sulla vendita di pubblicità agli inserzionisti, con un sistema fondato sulla massiccia raccolta di dati degli utenti, che permette una profilazione molto precisa dei messaggi.
Questo, unito a politiche non proprio virtuose da parte dell’azienda che controlla Facebook (Meta), ha fatto sì che oggi Facebook abbia grossi problemi di diffusione di discorsi d’odio (hatespeech), disinformazione e altre esperienze spiacevoli per gli utenti. Questo perché Facebook sceglie di premiare gli argomenti in grado di scatenare maggiori interazioni, che inevitabilmente sono quelli più divisivi e polarizzanti.
Quelli accennati sono solo una piccola parte dei problemi vissuti da Facebook e da altre piattaforme simili, in parte forse inevitabili quando su un’unica piattaforma convergono miliardi di utenti, ma in parte anche ascrivibili a scelte deliberate da parte di chi gestisce l’infrastruttura.
Ci siamo abituati all’idea che fake news, clickbait e conversazioni rabbiose siano spiacevoli ma inevitabili effetti collaterali rispetto ai benefici di mettere in connessione il mondo. Ma c’è un modo per tenere gli aspetti positivi dei social network, buttando via il resto? La risposta è sì.
In Europa è in corso un grosso dibattito sulla regolamentazione delle piattaforme online, e sul tavolo ci sono diverse proposte. Spesso le argomentazioni si fanno molto tecniche e si finisce a parlare di interoperabilità delle piattaforme, oppure di reti “federate” basate su software open source. Tutte proposte e idee (talune già operative) interessanti, ma che non mettono in discussione la struttura dei social network a cui ci siamo abituati.
Una “rete sociale” dovrebbe essere fatta di persone che interagiscono virtualmente per allargare le possibilità offerte dal mondo “analogico”. Per fare un esempio, è un po’ come quando nei primi anni di Facebook le persone si rimettevano in contatto con ex compagni di classe che non sentivano magari da decenni, finendo talvolta per reincontrarsi.
Oggi quel tipo di utilizzo delle piattaforme è residuale. Usare i social network è starci dentro, esserci. Spesso li si usa per interagire con personaggi del mondo dello spettacolo, politici, sportivi, i cui account sono spesso gestiti da collaboratori.
Ci sono progetti che cercano invece di portare avanti quello spirito “delle origini” che puntava a sfruttare la tecnologia per aumentare le possibilità di interazione “offline” degli esseri umani, invece di diventare lo strumento centrale di interazione.
Julia Angwin, direttrice di The Markup, ha intervistato di recente Michael Wood-Lewis, fondatore di Front Porch Forum, un social network fondato nel 2000 (quindi prima di Facebook) da una coppia del Vermont (Stati Uniti) che aveva difficoltà a entrare in relazione con il vicinato. Il progetto nasce come una mailing list, in cui ognuno potesse postare dei contenuti a beneficio della comunità (annunci di vendita, oggetti smarriti, eventi, ecc.). L’idea ottiene immediato successo e nel 2006 si struttura come azienda vera e propria, che guadagna vendendo spazi a imprenditori locali e offrendo sottoscrizioni a pagamento ai politici che vogliono restare in contatto con la propria comunità di riferimento.
Non c’è una piattaforma centrale, ma i post sono distribuiti in una mail quotidiana inviata ai partecipanti della comunità. Se una persona vuole rispondere a un post, può inviare una mail direttamente all’autore o inviare un post da pubblicare nella newsletter del giorno successivo.
Ciò che ha attirato attenzioni è il tono pacato e amichevole delle conversazioni. Questo è possibile grazie a un’intensa attività di moderazione volta a mantenere i toni su livelli accettabili, anche quando si discute di questioni delicate. Il fatto che i post non siano pubblicati immediatamente, ma il giorno successivo, aiuta la gestione e permette di fare filtro verso gli “agitatori” seriali.
Come spiega Wood-Lewis, «Il nostro obiettivo è stimolare le persone a essere coinvolte più attivamente nella vita delle loro comunità locali, e per facilitare questo stiamo usando questo incredibile strumento che è internet. […] A livello base, cerchiamo di fare in modo che le persone, invece di usare Uber per avere un passaggio all’aeroporto o Yelp per le recensioni dei ristoranti, vadano sul loro forum locale e dicano: “Ehi, vicini, ho bisogno di un passaggio all’aeroporto”, o quel che sia. Avere questi semplici scambi su cose quotidiane con vicini chiaramente identificati porta a un aumento del capitale sociale tra vicini. Se si riesce a ottenere questo, poi, quando arriveranno i veri problemi, la comunità sarà più forte. Gli studi sulla risposta ai disastri hanno dimostrato che le comunità con una forte coesione sociale – in cui le persone si conoscono e sono abituate a lavorare insieme – sono quelle che si riprendono più velocemente. Quindi l’obiettivo è usare questo strumento digitale per portare le persone ad avere contatti più regolari nella vita reale».
Tutte cose che con i più diffusi social network, per come sono strutturati, non avvengono. Ci hanno provato le “social street“, ma il grande limite è proprio quello di usare i gruppi Facebook come strumento, piegandosi quindi alle politiche della piattaforma in termini di gestione dei contenuti, priorità data ai messaggi, gestione delle interazioni, dei conflitti, dei dati degli utenti.
(Foto di camilo jimenez su Unsplash )
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