Negli ultimi anni si parla sempre più spesso di “dipendenza” riferita al rapporto che molte persone di diverse fasce d’età sviluppano con il proprio smartphone.

Ne parla un articolo uscito sul Tascabile che cita Juan Carlos De Martin, autore di Contro lo smartphone, che sottolinea come gli smartphone siano progettati per creare dipendenza, con applicazioni che si adattano alle nostre abitudini e rafforzano il nostro legame con il dispositivo. Secondo lo psicologo Matthias Brand, inoltre, non c’è cura per questa dipendenza, ma solo periodi di astinenza più o meno lunghi.

Il problema della dipendenza dagli smartphone non riguarda solo l’individuo, sostiene l’articolo, ma anche la società nel suo insieme. Il loro uso costante ha cambiato la nostra concezione di intimità e di realtà, spingendoci a riflettere su come ci trasformiamo, come individui e come società. Come sottolinea lo scrittore Simar Bajaj, identificare i meccanismi specifici di dipendenza dagli smartphone è una sfida per studi futuri, ma è chiaro che questa dipendenza influisce profondamente sulle nostre vite.

È quindi importante considerare le implicazioni psicologiche e sociali del loro uso e cercare un equilibrio sano tra la tecnologia e il benessere individuale.

Argomenti simili sono ripresi in un altro articolo uscito sulla stessa testata, che invita a esaminare criticamente il nostro rapporto con la tecnologia. Spesso ci troviamo immersi in dinamiche tossiche e manipolative che influenzano le nostre emozioni e il nostro comportamento senza che ce ne rendiamo conto.

Il mantra secondo cui “dipende da te”, spesso attribuito all’uso della tecnologia, è riduttivo e ingannevole, sostiene il pezzo. Le piattaforme digitali sono infatti progettate per stimolare le nostre emozioni, manipolarci e trattenere la nostra attenzione, indipendentemente dalla nostra età, competenza o status sociale. La tossicità intrinseca di queste piattaforme è evidente nelle dinamiche di gamificazione e nudging, che sfruttano meccanismi comportamentali inconsapevoli per mantenerci impegnati e dipendenti.

Tuttavia, esiste un’alternativa: la pedagogia hacker. Questo approccio, prosegue l’articolo, invita a riscoprire l’autonomia nelle nostre interazioni digitali, a esplorare criticamente il funzionamento dei dispositivi e a sperimentare la libertà di modificare e migliorare il nostro rapporto con la tecnologia. Gli hacker in questa accezione non sono necessariamente (o non solo) esperti informatici, ma si tratta più di un’attitudine: «Curiosità nei confronti della macchine; desiderio di comprenderne il comportamento, di modificarlo, di migliorarlo magari; abitudine a condividere le proprie ricerche e scoperte con persone affini».

Scegliere con cura i dispositivi e i sistemi tecnologici con cui vogliamo convivere è una decisione sociale e politica che ci riguarda tutti. La tesi dell’articolo è che dobbiamo resistere alla tendenza di delegare lo sviluppo tecnologico a pochi tecnocrati e lavorare per creare reti federate a livello locale, basate su software e hardware liberi e rispettosi della privacy.

«Si tratta di questioni sociali e politiche di interesse generale, troppo importanti per essere lasciate ai cosiddetti esperti, soprattutto agli esperti che lavorano per pochi padroni ipermiliardari convinti di essere onnipotenti. Per scongiurare ulteriori derive autocratiche tutti possono fare la loro parte, il contributo di ciascuno è rilevante».

(Foto di Florian Schmetz on Unsplash)

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