Riprendiamo il discorso sulla lotta alla mafia come “movimento culturale e morale”, così come inteso dai magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, grazie a una raccolta di scritti di Vincenzo Consolo uscita di recente per Bompiani con il titolo Cosa loro. Mafie tra cronaca e riflessione. La scelta delle parole nel titolo dice già molte cose: il fatto che non sia più “nostra” ma “loro” impone una scelta. Chi siamo noi e chi sono loro? È una distinzione netta quella che lo scrittore suggerisce: non esistono zone grigie. La mafia si moltiplica e diventa plurale: “mafie”, perché il concetto è complesso e bisogna indagarne il significato, a partire proprio dalle parole che si usano.

Mafia con la emme minuscola o maiuscola? Fenomeno paragonabile ad altri simili («brigantaggio, pirateria, banditismo, contrabbando…») nel primo caso, determinato geograficamente e storicamente nel secondo. Il termine ha origine incerta: «“mafia” deriverebbe dall’antico termine francese maufe, mauvais, cattivo; “mafia” deriverebbe dal fiorentino maffia, miseria; dall’arabo mahias, vanteria; dall’italiano muffole, manette».

Nel corso dei decenni esso ha assunto una pericolosa aura mitica, e in certa narrativa il mafioso ha guadagnato i connotati dell’eroe. È un fenomeno che caratterizza le produzioni più recenti intorno alla mafia. Basti pensare alla serie televisiva Gomorra, come fa notare Niccolò Scaffai su Alias: «Nelle fiction, si dà risalto al colore gergale, al diminutivo familiarizzante (Totò, Ciro, Genny), al soprannome suggestivo; negli articoli di Consolo, i nomi che si incontrano sono quelli di Pio La Torre, Rosario Di Salvo, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e molti altri che non richiamano un immaginario esotico (come “Sandokan”, soprannome del mafioso Francesco Schiavone) ma appartengono alla storia italiana». Non è una peculiarità recente. Già nell’Ottocento si arrivò a intendere la mafia come disposizione di spirito positiva, coraggiosa. Secondo il magistrato Giuseppe Guido Lo Schiavo, autore del romanzo Piccola pretura (1948), «“mafia” deriva dall’arabo maha, grotta, e mafia si chiamava appunto una grotta nella quale dei liberali siciliani complottavano contro i Borboni e prepararono lo sbarco di Garibaldi a Marsala. Mafioso diverrà quindi sinonimo di bello, generoso, coraggioso». Ancora indietro, si può risalire a quanto scriveva l’antropologo Giuseppe Pitrè: «“La mafia è la coscienza del proprio essere, la nozione esagerata della forza individuale”. Il Pitrè genererà una serie di equivoci. Il più importante dei quali quello del diffondersi dell’idea del mafioso come bandito eroe, giustiziere, una specie di Robin Hood: vendicatore delle prepotenze dei forti contro i deboli, dei ricchi contro i poveri; uomo giusto che si sostituisce all’ingiustizia delle leggi dello Stato».

Tra le distorsioni del discorso intorno alla mafia c’è poi il problema generato da chi accusa chi ne parla di infangare l’onore della Sicilia. Una maniera subdola di spostare il piano del discorso e trasformare l’accusatore in accusato, colui che indica il problema in colui che lo crea. Una sorta di “negazionismo”, a voler riprendere un termine associato ad altri fatti storici. Quando era governatore dell’isola, Totò Cuffaro fece proprio questo, e contro di lui si scagliò la penna di Consolo, in un articolo per l’Unità dal titolo “Disonore in Sicilia” (19 gennaio 2005): «Ci risiamo! Da un po’ di tempo non sentivamo più cantare il famoso motivetto sulle persone che dicono di mafia e che quindi infamano, infangano la Sicilia, oltraggiano il suo onore. Oggi il motivetto l’ha cantato, con grazia, con limpida deliziosa voce l’eccellentissimo, stimatissimo signor Governatore di Sicilia onorevole Totò Cuffaro. […] Ma cos’è tutto questo parlare e parlare di mafia, parlare del traffico di droga e di armi, di riciclaggio di denaro sporco e di tanti altri immondi traffici; parlare soprattutto della sequela infinita dei morti ammazzati dalla mafia? Finiamola!, dicono certi politici, finiamola dice il gran Governatore di Sicilia onorevole Totò Cuffaro».

Una celebre inchiesta di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, condotta e pubblicata tra il 1875 e il 1876, riportava una descrizione eloquente del sistema di giustizia all’interno di un contesto mafioso, per bocca del procuratore di Girgenti: «… Se capitano dei poveri disgraziati che non hanno protezioni, impegni denari, né appartengono alla maffia, si può star sicuri, non troveranno indulgenza alcuna, e si avranno verdetti severi e giusti. Ben altro è poi se gli imputati appartengono a classe agiata; ovvero alla maffia; per qualunque atroce crimine si può star sicuri d’ottenere verdetti di incolpabilità: o, se il fatto fosse di tale evidenza di prove da non potersi, se non con spudoratezza, negare, saranno sempre ammesse dai giurati tutte quelle circostanze introdotte dalla difesa, risultino oppure no, dal dibattimento, che valgano a ridurre ai minimi termini l’imputazione e la relativa pena».

Ciò che invece cerca di spiegarci la produzione di Vincenzo Consolo è che la mafia è un problema che riguarda ognuno di noi. I tanti morti che ha causato non ci chiedono oggi lapidi, fiaccolate e commemorazioni. Riti e fiori valgono a poco: «Gli uni e gli altri si consumano e appassiscono», scriveva su L’Ora il 6 settembre 1982. «Questi morti non vogliono mai perdere il valore del loro sacrificio: valore di lacerazione, di inquietudine, di furore e di lucidità delle nostre coscienze. Vogliono che non dimentichiamo per un attimo la orribile faccia del loro e del nostro nemico. […] E vogliono quei morti che sappiamo che la lotta alla mafia non ha bisogno di eroi soli e isolati da immolare, che sono ingiusti i sacrifici dei sindacalisti, dei La Torre, dei Dalla Chiesa; che la lotta alla mafia ha bisogno di noi, di ognuno di noi, nella nostra limpida coscienza civile, della nostra ferma determinazione; che è lotta politica, lotta per la nostra civiltà».

(Foto di Flavio Leone su flickr)