Tra i pochi indici a non scendere nel corso dell’ultimo decennio ce n’è uno, molto importante: la partecipazione al volontariato. Secondo l’ultimo rapporto Istat “Aspetti della vita quotidiana”, la percentuale di italiani che svolge attività nel sociale è arrivata nel 2010 alla soglia del 10 per cento, mentre nel 2001 si fermava all’8,4. Riprendiamo alcune considerazioni espresse in merito dal direttore della Fondazione volontariato e partecipazione, Riccardo Guidi, che individua alcuni trend interessanti all’interno dei dati Istati: «Il primo riguarda i rapporti tra i generi della partecipazione ad attività di volontariato. Tra il 2009 e il 2010 il differenziale di genere nella partecipazione ad attività di volontariato aumenta, con i maschi che partecipano sempre più delle femmine. […]
Tuttavia occorre rilevare che la dinamica della partecipazione ad attività di volontariato per genere […] mostra una notevole precocità delle femmine rispetto ai maschi: tra i 14 ed i 24 anni i tassi di volontariato delle femmine sono di gran lunga superiori rispetto a a quelli dei loro pari maschili». E in questo senso Guidi propone un’interessante interpretazione, ossia che la flessione dopo i 24 anni nelle donne sia dovuta all’«assenza di adeguate politiche di sostegno alla famiglia e alla genitorialità in Italia». Stesso tipo di interpretazione si può dare al fatto che, al raggiungimento dell’età pensionabile, il tempo trascorso in attività di volontariato tende non ad aumentare, ma ad abbattersi drasticamente: i maggiori livelli di attività di volontariato in Italia si osservano infatti tra i 45 e i 64 anni, mentre crollano dopo i 64 anni. «Ancora una volta -osserva Guidi- si richiama l’attenzione sulla circostanza per cui lo scarso livello delle politiche socio-assistenziali di sostegno alla famiglia può gravare su questa dinamica, imprimendo una spinta verso il restringimento alle solidarietà private-familiari delle attività di cura realizzate dai nonni e dalle nonne italiani/e».
Altre due sono le tendenze rilevate, che confermano e consolidano rilevamenti compiuti in passato, ossia l’incidenza del titolo di studio e le disparità territoriali. Per quanto riguarda la prima, «maggiori livelli di partecipazione ad attività di volontariato si osservano per gli/le occupati/e con status occupazionali più alti (dirigenti, imprenditori, liberi professionisti) ed i minori livelli per coloro che hanno status occupazionali più marginali (casalinghe, persone in cerca di occupazione e operai/e)». In sostanza, quindi, «i tassi di volontariato diminuiscono al diminuire del titolo di studio posseduto». Dal punto di vista geografico, «Il Nord si conferma la macro-area territoriale con tassi di volontariato maggiori, seguita dal Centro, mentre le Isole ed il Sud si confermano con i livelli minori, sebbene in tutte le aree in crescita rispetto al 2009. Nel 2010 i differenziali territoriali comunque si approfondiscono. […] Dall’incrocio tra livelli di partecipazione ad attività di volontariato e ampiezza del Comune di residenza esce confermata la tendenza, già osservata nel 2009, sulla maggiore propensione all’attività di volontariato per coloro che vivono nei piccoli (fino a 2.000 abitanti) e piccolissimi (fino a 10.000) Comuni collocati fuori delle aree metropolitane». Insomma, la “piccola Italia” c’è e contribuisce attivamente allo sviluppo del Paese in quanto comunità di persone. Man mano che si sale la piramide della complessità sociale, sembrano invece perdere forza le motivazioni a “sporcarsi le mani”, forse per un’assuefazione al concetto di delega dei compiti favorita dai meccanismi della democrazia rappresentativa.
Altro dato interessante dell’indagine è quello sulla scarsissima partecipazione ad attività volontarie più politicizzate: la quota di persone «che dice di avere partecipato negli ultimi 12 mesi ad almeno una riunione di associazioni di advocacy è appena dell’1,8%». Emerge «un quadro pressoché desolante della partecipazione sindacale attiva (avere svolto almeno una volta l’anno negli ultimi 12 mesi un’attività gratuita per un sindacato), con un livello di partecipazione medio che si attesta all’1,3 per cento». Ci rallegriamo quindi nello scoprire che, nonostante le difficoltà, la partecipazione sociale aumenta. Questo distacco da attività più schierate, però, ci preoccupa, anche se non ci sorprende: non sarà che siamo vittima di un’altra tendenza, ossia quella ad adagiarci sulla passività dell’”indignazione inattiva”?