«Si tratta di uno dei sistemi più frammentati, più pieni di buchi, più esposti a manipolazioni e imbrogli tra quelli europei». Il sistema in questione è quello del welfare italiano, e a scrivere queste parole è la sociologa Chiara Saraceno, in un articolo per Lavoce.info del 2014. Nonostante siano passati tre anni da quella pubblicazione, la realtà non è cambiata più di tanto, e l’introduzione del Rei (Reddito d’inclusione) non farà la differenza, nonostante sia una misura che sta riscontrando alcuni apprezzamenti. «Di ambizioni di riforma si parla almeno da venti anni – prosegue l’articolo –, dalla commissione Onofri istituita dal primo Governo Prodi, senza che se ne sia fatto nulla, salvo i ritocchi a margine, spesso dolorosissimi, varati via via dai vari Governi, che hanno ulteriormente aumentato la frammentazione e i rischi di iniquità».
Ciò che manca nei vari interventi che si sono susseguiti nel corso degli anni è una logica che sia davvero “di sistema”, quindi con una sua coerenza interna, in modo che le diverse fasce di popolazione siano raggiunte in maniera equa e progressiva dalle misure previste. In Italia ci sono invece norme ridondanti che “premiano” più volte una stessa categoria, lasciando scoperte alcune fasce di popolazione, soprattutto quelle più in difficoltà. Uno dei motivi di questo paradosso è spiegato ancora da Saraceni: «Salvo la sanità, pressoché tutte le politiche sociali sono di tipo categoriale e lavoristico, anziché essere dirette ai cittadini in quanto tali. Ad esempio, non sono mai state sviluppate politiche universali di sostegno al costo dei figli, a prescindere dalla posizione dei genitori nel mercato del lavoro; e non è mai stata introdotta una misura di garanzia di reddito per chi si trova in povertà e spesso non è mai riuscito neppure a entrare nel mercato del lavoro, almeno in quello formale».
In questa seconda critica al welfare italiano, il Rei introduce quindi una novità, essendo il primo strumento mai introdotto nel nostro Paese a carattere universale, ossia rivolto a chi rientra in determinati parametri economici, a prescindere da categorie e altre questioni legate al lavoro. Un altro dei problemi è infatti che quest’ultimo, anche quando c’è, non garantisce l’uscita dalla povertà. Uno dei problemi italiani, infatti, è quello dei working poor, ossia degli occupati che non guadagnano abbastanza da coprire le spese proprie e della famiglia di cui fanno parte. Ne ha parlato Stefano Boeri, presidente dell’Inps, nel corso di un’audizione parlamentare a fine novembre.
Come riporta Reuters, Boeri ha detto che «ci sono 2,5 milioni di working poor, alle dipendenze e autonomi. A questi si aggiungono quelli del settore informale». Più nel dettaglio: «circa il 10 per cento dei dipendenti del settore privato ha redditi da lavoro, al netto dei contributi sociali, che non superano la soglia di povertà [con un salario orario inferiore a 8,60 euro] e la metà di questi ha un salario tale che, anche lavorando a tempo pieno, non supererebbe questa soglia di povertà. “A questi vanno aggiunti gli autonomi con reddito da lavoro complessivo al di sotto della linea di povertà, che sono intorno a 1 milione”, ha aggiunto Boeri parlando di “presenza massiccia di povertà tra chi lavora nel paese, conseguenza della crisi”».
Il giornalista Davide Maria De Luca, in un articolo sul Post, ha riportato una tabella «che riassume le principali voci di spesa per la politica sociale e contrasto alla povertà, elaborata da Emanuele Ranci Ortigosa e Daniela Mesini, due ricercatori dell’Istituto per la Ricerca Sociale, nell’articolo “Costruiamo il Welfare dei Diritti: ridefinire le politiche sociali su criteri di equità ed efficacia”, pubblicato sulla rivista Prospettive Sociali e Sanitarie». Uno sguardo all’elenco rende bene l’idea di cosa si intenda per “frammentazione” del welfare: «L’elenco, composto da 18 capitoli di spesa differenti, non è esaustivo: la voce detrazioni fiscali, per esempio, potrebbe essere suddivisa in decine di altre voci diverse, una per ognuna delle innumerevoli detrazioni fiscali che sono state introdotte nel corso dei decenni, da quella per le spese mediche a quella per le bollette del riscaldamento. Quello che è chiaro è chi eroga e dove va il grosso di questa spesa: l’80 per cento viene pagato dall’Inps ad anziani, invalidi e persone che hanno una storia contributiva alle spalle (cioè che hanno lavorato e messo da parte contributi). “Per giovani, stranieri e incapienti”, ha spiegato al Post la ricercatrice dell’IRS Daniela Mesini, “restano soltanto le briciole”».
Dei tanti dati interessanti (e al tempo stesso preoccupanti) riportati da De Luca citiamo quello relativo ai dati Ocse, che permettono di fare alcuni confronti con altri Paesi a noi geograficamente vicini. «Secondo l’ultimo rapporto pubblicato Dall’Ocse, per ogni 100 euro spesi nella protezione sociale, 64,3 sono rivolti alla popolazione anziana, sotto forma soprattutto di spesa per pensioni, mentre la media dei paesi Ocse è di 11 euro inferiore: 53,5 (a questa situazione probabilmente non è estraneo il fatto che l’Italia ha i sindacati dei pensionati più forti del mondo). La spesa per combattere la disoccupazione vale il 5,5 per cento della spesa sociale (contro una media Ocse del 7, la Germania 9,2 e la Spagna addirittura 11,8). La lotta all’esclusione sociale impegna appena l’1,2 per cento della spesa sociale, cioè circa un quinto di quanto si spende nei paesi più avanzati. Per case popolari e abitazioni, poi, in Italia sostanzialmente non si spendono soldi: L’Ocse conteggia appena il 2 per mille della spesa sociale in Italia contro il 2,6 per cento degli altri paesi sviluppati».
(Foto di Paul Dufour su Unsplash)