Martedì 20 dicembre ricorrevano i primi dieci anni dalla morte di Piergiorgio Welby, giornalista, attivista e artista affetto da distrofia muscolare. La sua storia personale è diventata anche un pezzo della storia d’Italia nel momento in cui, con l’aiuto di un medico, riuscì a ottenere che gli fosse staccato il respiratore, dal quale dipendeva (contro la sua volontà) dal 1997. A scrivere la storia sono poi stati anche coloro che dovevano giudicare l’operato di Mario Ricci, l’anestesista che, secondo le volontà di Welby, prima lo sedò e poi lo privò del respiratore. L’ordine dei medici di Cremona stabilì poco dopo che il medico aveva agito «nella piena legittimità del comportamento etico e professionale». Allo stesso modo la magistratura, pochi mesi dopo, decise per il non luogo a procedere.

Da quel momento, quel fatto così complicato, doloroso e combattuto, è diventato fonte di speranza per tante persone che per cui la vita è ormai solo sofferenza e che, sfinite, vorrebbero porre fine al proprio calvario. Improvvisamente il tema diventò oggetto di dibattito e di confronto aperto, con un preciso invito dell’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano all’indirizzo del Parlamento, affinché si occupasse di una questione non più rinviabile. Invece, a distanza di un decennio, l’Italia non ha ancora una legge sull’eutanasia, né sul testamento biologico.

Secondo una ricerca Swg, citata da Sanità 24, gli italiani sono andati ben oltre la lentezza della macchina politica, e il 77 per cento chiede che si faccia una legge per regolamentare le scelte di fine vita. C’è anche un’iniziativa di legge di iniziativa popolare, che attende da tempo di essere discussa, probabilmente invano. Qualcosa si sta muovendo (ma è presto per essere troppo ottimisti) per quanto riguarda il cosiddetto testamento biologico, visto che «il 7 dicembre la Commissione Affari sociali della Camera dà il via libera al testo sul testamento biologico. Donata Lenzi, relatrice sulle Dat confida di riuscire ad approvare il testo entro la fine della legislatura».

L’assenza di una legge sul fine vita è un fatto grave perché stabilisce una discriminazione: «In assenza di una legge in materia si “salva” solo chi incontra il medico giusto o un giudice comprensivo», spiega a Repubblica Mario Sabatelli, primario del policlinico Gemelli di Roma. Da anni l’associazione Luca Coscioni fornisce assistenza a chi si trova nella drammatica situazione di voler scegliere la propria morte, sia dal punto di vista legale, sia da quello logistico (accompagnando le persone all’estero, in Paesi in cui assolvere alla loro volontà è un diritto garantito). La strada aperta da Welby è dunque rimasta al punto in cui egli la lasciò quel 20 dicembre 2006.

È noto che quello sulle scelte di fine vita è un tema che solleva questioni etiche di non poco conto. Talvolta però, nel parlarne vengono a galla paure e si dipingono scenari del tutto irrazionali come se, una volta approvata una legge in questo senso, si dovesse manifestare un’ecatombe di suicidi assistiti. Non è successo nei Paesi in cui la legge si è fatta, e non succederebbe neanche in Italia. Nel parlare di eutanasia, non si prescinde ovviamente dal fatto di cercare ogni cura possibile per la persona malata.

Un errore che si commette spesso è quello di pensare alla cura soprattutto in senso tecnico, cioè quella farmacologica e data dall’innovazione tecnologica. Si tralascia troppo spesso il fattore umano, quello che può ridare al malato, anche in condizioni estreme, una motivazione per continuare a vivere. Ma se anche questo tentativo fallisce, azioni quali la respirazione e l’alimentazione forzate diventano concetti vicini alla definizione di accanimento terapeutico. In questo senso, sono proprio le parole della moglie di Welby a fornire uno spunto di riflessione.

Mina Welby non è una persona che propone soluzioni pronte o risposte sbrigative. Proprio la sua storia l’ha avvicinata alla complessità del problema e dunque le sue parole sono sempre ponderate e dense di umanità. Vi lasciamo con le sue considerazioni, prese da un’intervista rilasciata a Vita nel 2007: «Per queste persone cercherei di capire se c’è ancora una possibilità per farli vivere, per coinvolgerli in un’attività, per garantirgli l’assistenza, la qualità della vita. Ma la cosa più importante è l’affetto, che fa tutto. Perché le tecnologie possono essere sofisticate quanto vuoi, ma se non c’è l’amore, il calore, la spinta complice di qualcuno che ti aiuta, non si può fare nulla. Questo vale anche per chi fa assistenza domiciliare: a volte non curano la relazione personale, ma è importante, perché per molti malati quelle sono le uniche persone che vedono. A noi, dopo mia cognata, la persona che ci è stata più vicina è stata una nostra assistente, Josephine, una signora che viene da Santo Domingo. Un pochino ha riconciliato mio marito con la vita. Per questo dico che mio marito non voleva morire, era solo stanco, stremato: non c’erano più muscoli, non c’era più nessuna terapia da fare. Mi sembra giusto esigere la garanzia della presa in carico, però ci sono anche persone che dopo una trafila di anni di cure e di sofferenza arrivano allo stremo, alla fine di tutto. Penso che regolamentare l’eutanasia darebbe loro una sicurezza: in caso estremo, quando non ci sarà più niente da fare, sono sicuri che non soffriranno».

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