A inizio gennaio, nel giro di poche ore, sono stati diffusi due comunicati molto discordanti sui beni culturali italiani. Il primo, in ordine cronologico, è un manifesto firmato da diversi studiosi, esperti e professionisti della cultura, che accusano il ministro Dario Franceschini di una gestione disastrosa del suo dicastero. L’altro è quello pubblicato proprio dal Mibact, contenente dati trionfalistici sui risultati economici dell’attuale gestione. Per il 2017 si parla di «record per i musei italiani: superata la soglia dei 50 milioni di visitatori e incassi che sfiorano i 200 milioni di euro, con un incremento rispetto al 2016 di circa +5 milioni di visitatori e di +20 milioni di euro».

Effettivamente i dati danno ragione al ministro, visto che il numero dei visitatori dal 2013 (primo anno nella statistica mostrata sul sito) il numero di visitatori e di introiti monetari è aumentato costantemente. Sono risultati molto buoni e, anche consultando dati meno recenti, non si trovano in passato progressioni così evidenti, sia in termini di persone che di incassi.

Cosa contestano dunque i firmatari del manifesto al ministro? Innanzitutto, il fatto che l’Italia resti uno dei Paesi che investe meno nella tutela dei beni culturali in Europa: «Un terzo di quella francese, metà di quella spagnola, e i suoi recenti relativi incrementi, beninteso rispetto al minimo dello 0,19 per cento del bilancio statale toccato nel 2011 (governo Berlusconi IV) rispetto allo 0,39 per cento del 2000 (governo Amato II), vengono indirizzati su obiettivi futili o sbagliati». È utile, per correttezza, integrare questi dati con il fact-checking realizzato dall’Agi, dove si conferma che effettivamente la spesa italiana risulta tra le più basse, ma i dati menzionati sono imprecisi: «Eurostat riporta che nel 2015 (ultimo anno disponibile) l’Italia ha investito lo 0,7 per cento del proprio Pil in cultura, come Grecia e Regno Unito, e meglio solo dell’Irlanda (0,6 per cento), a fronte dell’1 per cento della media Ue. La Spagna investe l’1,1 per cento e la Francia invece l’1,3 per cento. E anche se si guarda alla percentuale di spesa in rapporto al totale della spesa pubblica, le posizioni sono simili. L’Italia è sempre penultima con l’1,5 per cento, al pari del Regno Unito, e sopra solo alla Grecia (1,3 per cento). La Spagna in questo caso è al 2,6 per cento e la Francia al 2,3 per cento, mentre la media Ue si attesta sul 2,2 per cento». Non è dunque corretto dire «Un terzo di quella francese, metà di quella spagnola», ma tant’è, restiamo comunque in posizioni di bassa classifica.

Al di là dei dati quantitativi, ciò che proprio non va giù ai firmatari del manifesto è il modo in cui si stanno spendendo le risorse. Si finanziano eventi ritenuti di scarsa rilevanza culturale: «Si organizzano gare di canottaggio nella vasca della Reggia di Caserta o si propagandano al suo interno prodotti tipici della zona e intanto la vasca risulta ingombra di rifiuti e l’intonaco cade a pezzi in una sala importante. Mentre, tanto per corroborare i vantati incrementi degli ingressi, si organizza al grande Museo Archeologico Nazionale di Napoli una mostra sul Napoli Calcio con magliette, ricordi e gadget di Maradona».

In generale, come spiega anche Carlo Clericetti su Repubblica, il problema è che la politica del Ministero è tutta rivolta alla valorizzazione (e cioè monetizzazione) del patrimonio, e poco o per nulla alla tutela (dunque alla manutenzione). «Si dirà: e che c’è di male a voler ricavare il più possibile dal nostro patrimonio artistico?», scrive Clericetti. «Nulla, se non fosse per il fatto che è stata invece completamente abbandonata la tutela. In pratica, è come se con la propria auto si volessero fare più chilometri possibile, ma spendendo tutti i soldi per la benzina, anche quelli che servirebbero per fare i tagliandi e per cambiare l’olio. Si capisce bene che in questo modo l’auto farà una brutta fine». Vedremo chi ci sarà alla guida dell’auto dopo le elezioni di marzo, nel frattempo meglio allacciare le cinture.

(Foto di Justine Camacho su Unsplash)