C’era un legame implicito tra il racconto di Cleophas Adrien Dioma (Burkina Faso) e le immagini del documentario Vol Spécial, di Fernand Melgar (Svizzera). Siamo a Ferrara, nel corso del Festival di Internazionale che si è svolto dal 5 al 7 ottobre, come ogni anno dal 2007. Tanti i temi trattati dai numerosi incontri che si sono succeduti nel fine settimana; tra questi l’immigrazione, analizzata sotto diversi punti di vista. Dioma raccontava in un reading, con l’accompagnamento musicale del connazionale Gabin Dabiré, l’esperienza del suo arrivo in Italia, ormai dieci anni fa, tra spaesamento e improvvisazione, sogni e illusioni. Un racconto amaro quanto leggero, fatto di aneddoti ricordati col sorriso e di parti più intime, oscure. «La voglia di partire è enorme in chi non può partire», ripete ossessivamente. «Perché poi diventi un immigrato, un clandestino, non più una persona. Sarebbe bello poter decidere quando andare, quando tornare. Senza nessun obbligo, senza dare una spiegazione. Dove vuoi, quando vuoi. Scegliendo quando e come tornare».

Appunto: tornare. Ciò che molti immigrati clandestini sono costretti a fare lasciando la Svizzera -e siamo a Vol spécial– da quando è stata approvata, tramite referendum popolare, una legge che permette alle autorità elvetiche di imprigionare e trattenere fino a due anni qualunque immigrato irregolare presente sul territorio svizzero, per poi (quasi sempre) rimandarlo nel suo Paese d’origine. Anche se magari nel frattempo sono passati vent’anni -come nel caso del kosovaro Ragip-, e questa persona non è più sola ma ha una famiglia, dei figli, un lavoro. E soprattutto non ha più legami con la sua terra d’origine. Si svuota di senso l’espressione “ti rimandiamo a casa”, quando sai che se prendi quell’aereo e torni da dove sei venuto, la tua vita è in pericolo. Ma questo è un discorso che non arriva alle orecchie che dovrebbero ascoltarlo. Orecchie che preferiscono liberarsi del “problema” rimandandolo al mittente, come un pacco.

Ci sono due modi di “tornare a casa”. La prima è accettare l’invito delle autorità, partire su un volo regolare pagato dallo Stato e atterrare a destinazione da persona comune. La seconda, se la prima opzione non è gradita (come quasi mai accade), è di salire su un volo speciale. Un aereo destinato espressamente ai rimpatri, su cui gli immigrati sono imbarcati in condizioni che somigliano tanto a quelle dei condannati a morte sulla sedia elettrica: legati con delle cinghie, mani, piedi, schiena, come pericolosi criminali. Senza possibilità di fare il benché minimo movimento, col rischio di avere difficoltà respiratorie, di restare soffocati. Cosa che purtroppo accade, come mostra il documentario uscendo per un attimo dal centro di detenzione e ricollegandosi alla cronaca dei tiggì.

A fronte di un trattamento che afferma di rispettare la dignità della persona, e che avviene in strutture funzionali e accoglienti (il film è girato in quella di Frambois, canton Vaud), improvvisamente è chiaro a tutti che queste persone stanno pagando troppo caro il fatto di non avere documenti per risiedere in Svizzera, dopo che per anni hanno contribuito alla comunità pagando le tasse e dando il proprio lavoro. E soprattutto, come dice uno dei detenuti, chi mette in pratica questi rimpatri forzati diffonde il seme dell’odio nelle persone che li subiscono. I loro figli cresceranno con la macchia della non accettazione da parte della comunità in cui vivono, nella consapevolezza che chi sta loro attorno ha cacciato loro padre perché era pur sempre uno straniero, e forse un giorno farà lo stesso con loro.

Sul sito internet del documentario si può vedere che fine hanno fatto alcuni dei protagonisti, dopo il rimpatrio. Il musicista senegalese Dia, per esempio, perde il suo permesso di soggiorno dopo 15 anni in Svizzera e viene rimandato a Dakar, dove oggi vive nascosto per la vergogna, convivendo con la sofferenza di aver perso per sempre i suoi quattro figli. E poi c’è Ragip, che ha dovuto fare i conti con la mancanza di soldi, lo spaesamento di non avere più nessuno se non i propri genitori ad accoglierlo in Kosovo. Ma suo padre non accetta che lui abbia lasciato il Paese per così tanto tempo, non vuole dargli una stanza dove dormire; dovrà intervenire la madre per dire ciò che piegherebbe anche il diniego più inflessibile: «È pur sempre nostro figlio». La famiglia di Ragip, intanto, è ancora in Svizzera, nascosta per timore di essere accompagnata su di un vol spécial.