Oggi si celebra la prima Giornata nazionale contro il bullismo e il cyberbullismo. Ne approfittiamo per tornare su questi argomenti e vedere a che punto è la legge sul cyberbullismo. Di quest’ultima avevamo parlato su ZeroNegativo a settembre dello scorso anno quando, dopo varie letture alla Camera e al Senato, sembrava che si fosse vicini all’approvazione definitiva. Già allora denunciavamo come, da un buon punto di partenza, le continue modifiche avessero contribuito a rendere vaghi i contorni del fenomeno, fino a includere nel testo cose che nulla hanno a che vedere con il cyberbullismo.
«La definizione di cyberbullismo – scrivevamo l’8 settembre 2016 –, inizialmente precisa e circoscritta, è andata allargandosi fino a prevedere tipologie di reato molto diverse tra loro. È inoltre sparito il riferimento al fatto che le vittime dei comportamenti sanzionabili siano minori, cancellando di fatto la specificità dei soggetti da proteggere. Al contempo, aprendo il campo alle dispute tra adulti, si è inserita tra le pene previste la reclusione, da uno a sei anni, se chi commette l’offesa è maggiorenne. Su questi tre temi girano le critiche più accese che si possono leggere sul web, e in alcuni casi si arrivano a utilizzare formule ormai trite come “legge bavaglio” o addirittura “legge ammazza-web”».
Nel nuovo testo, approvato dal Senato il 31 gennaio, il fenomeno viene riportato ai suoi confini iniziali, come riporta ValigiaBlu: per cyberbullismo si intende «qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali in danno di minorenni, realizzata per via telematica, nonché la diffusione di contenuti on line aventi ad oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore il cui scopo intenzionale e predominante sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo».
Come ha specificato l’avvocato Francesco Paolo Micozzi, non si deve parlare di “reato” di cyberbullismo, perché l’obiettivo della legge non è istituire una nuova fattispecie per questo tipo di atti: «La definizione di cyberbullismo è introdotta al fine esclusivo di individuare e contrastare (in ottica preventiva ed essenzialmente educativa) una serie di fenomeni dagli effetti potenzialmente devastanti per le vittime. In sostanza, non si vuole descrivere il fatto di una specifica norma penale incriminatrice: non esiste il reato di cyberbullismo né questo rappresenta un obiettivo del disegno di legge. Con ciò, ovviamente, non deve certo intendersi che i singoli atti di “pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto di identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione o trattamento illecito di dati personali”, presi singolarmente, non possano integrare una condotta penalmente illecita».
Un aspetto positivo della norma, per come si presenta attualmente, è lo spostamento del baricentro verso la prevenzione, piuttosto che verso la repressione: si parla di «misure di prevenzione ed educazione nelle scuole sia per le vittime che per gli autori di gesti di cyberbullismo». Sembra che questo disegno di legge, nonostante la lentezza e gli inciampi, abbia qualche potenzialità da esprimere. Il suo percorso ovviamente è legato a quello dell’attuale legislatura e, in caso di elezioni anticipate, rischiamo di vedere slittare ulteriormente il traguardo.
Parlando di bullismo, è interessante leggere i dati presentati da Maria De Paola su lavoce.info, che ha analizzato le risposte date dagli studenti durante la compilazione del test Invalsi 2014/2015 (il confronto tra più anni non è possibile perché le domande non sono state sempre fatte, o sono state fatte in maniera disomogenea) alle domande che riguardavano il bullismo. Esaminando i dati «relativi alla quinta classe della scuola primaria si nota che solo il 19,3 per cento degli alunni non ha mai subito questo tipo di comportamento. Circa il 59 per cento risponde invece di averlo subito ogni tanto. La cadenza diventa settimanale per circa il 11 per cento degli studenti e giornaliera per il 10 per cento».
Le statistiche mostrano come sia sempre fuorviante pensare che il mondo, anche quello dei ragazzi, si divida nettamente tra “buoni” e “cattivi”, perché spesso chi subisce molestie diventa colui che le infligge. Come sempre, i contorni sono più sfumati di come ce li immaginiamo, ed è per questo che bisogna insistere sulla prevenzione, la formazione, l’educazione, e non lasciarsi prendere dalla fuorviante semplicità della formula punitiva: «Nel 2014-15, il 6 per cento degli adolescenti che frequentano la seconda classe delle scuole superiori dichiara sia di aver subito con frequenza settimanale o giornaliera atti di bullismo sia di aver messo in atto tali comportamenti nei confronti di altri studenti con la stessa frequenza. La percentuale è più alta tra gli studenti immigrati: 9,5 per cento contro il 5,7 per cento degli studenti italiani. Si può rispondere alle umiliazioni derivanti dalle aggressioni psicologiche o fisiche subite in maniera diversa. È però facile che chi subisce violenza metta prima o poi in atto comportamenti violenti».
Fonte foto: flickr