La Corte europea per i diritti umani (Cedu) ha rigettato il ricorso del governo italiano contro la sua sentenza del 13 giugno che invitava il nostro paese ad abolire la misura dell’ergastolo ostativo. Quest’ultimo è previsto dall’articolo 4 bis del codice penale, e prevede che per alcuni reati particolarmente gravi, come mafia e terrorismo, siano escluse per il condannato le misure alternative alla detenzione (libertà condizionale, lavoro all’esterno, permessi-premio e semilibertà).
Collaboratori per forza
Per la verità una via per accedere a questi diritti c’è: collaborare con la giustizia. Il mondo dei giuristi è piuttosto diviso sul fatto che questa misura rispetti il terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione, che stabilisce che «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». La sentenza del 13 giugno della Cedu si rifaceva all’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani, che parla proprio di «trattamenti inumani e degradanti». Come spiegava Adriano Sofri su Repubblica (in un articolo citato dal Post), il fatto che le misure alternative siano vincolate alla decisione di collaborare rappresenta solo apparentemente una libera scelta per il condannato: «Subordinare l’”indulgenza” (uso questo termine perché ricorda l’altro, della simonia) alla delazione espone il condannato a mettere oltre che se stesso la propria famiglia, a distanza di venti o trenta anni – figli, figli dei figli – nella catastrofe della “protezione”, del cambiamento di identità, di luogo, di vita, nella paura. E infine – ma non è l’ultimo degli argomenti, al contrario – chi può escludere che fra quegli ergastolani “ostativi”, quegli “uomini ombra” come loro stessi hanno deciso di chiamarsi, ce ne siano che non hanno niente da confessare, nessuno da denunciare?». Il principio contestato è dunque che la decisione di collaborare sia un passaggio imprescindibile nel percorso di riabilitazione del condannato. Un vincolo che per la Corte, e per molti altri, non rispetta l’intento riabilitativo del carcere.
Una misura emergenziale diventata definitiva
Trattandosi di persone che sono state giudicate colpevoli di reati particolarmente gravi, è normale che il loro eventuale e progressivo reinserimento in società sia lento, progressivo e a condizioni particolarmente rigide. Questo non significa però che l’ergastolo ostativo sia il migliore strumento a disposizione per occuparsi di tali casi. L’ergastolo ostativo nasce, assieme al cosiddetto “carcere duro” (regolato dall’articolo 41 bis del Codice penale), come provvedimento straordinario nell’Italia di inizio anni ’90. Un paese che usciva lacerato dalle stragi mafiose che avevano portato via, tra gli altri, i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Misure straordinarie in una situazione straordinaria, che poi sono rimaste anche quando i livelli di emergenza si sono abbassati. Sul tema si è espresso, dalla sua pagina Facebook, Luigi Manconi, politico e sociologo, come sempre con parole di grande equilibrio: «Le legittime preoccupazioni di chi teme che, di un’eventuale abolizione dell’ergastolo ostativo, possano usufruire i capi delle mafie, vanno prese sul serio, ma la risposta giusta dovrebbe essere un’altra: quella di verificare, nella maniera più rigorosa, la sussistenza dello stato di pericolosità sociale; e, nel caso di continuità di esso, protrarre la detenzione. E così di consentire al giudice, anche in questa circostanza, di giudicare. Si tratta di passare, dunque, da un dispositivo automatico a un giudizio analitico, che non escluda alcuno, preventivamente – ma in realtà, definitivamente – dalla possibilità di emancipazione dal crimine. Questa opportunità forse riguarderà pochi tra i responsabili delle stragi e dei grandi delitti, ma dimostrerà, in maniera inequivocabile, la superiorità giuridica e morale dello stato di diritto rispetto ai suoi nemici giurati».
(Foto di Bill Oxford su Unsplash)