A poco meno di un anno dalla morte di Umberto Eco, si è spento il 9 gennaio il sociologo (e filosofo, politologo, storico del presente, ecc.) Zygmunt Bauman. Ci spiace iniziare l’anno con tanti omaggi a importanti intellettuali scomparsi, ma quando ci lascia qualcuno che, a prescindere dal fatto che ne siamo consapevoli o meno, ha contribuito a plasmare la percezione delle nostre esistenze e del nostro tempo (come anche Eco e De Mauro), è doveroso tributargli uno spazio.
Il concetto con cui Bauman ha raggiunto una relativa celebrità anche tra persone che non si sono mai occupate di sociologia (e che non hanno mai letto un suo libro) è quello di “modernità liquida”, usato per descrivere la società consumistica in cui viviamo. Ci viene in soccorso Vanni Codeluppi, sociologo, che in un articolo per il blog Doppiozero.com riassume il contenuto di quella che è diventata una formula abusata: il concetto di “modernità liquida” costituisce «un’efficace metafora per rappresentare il processo di liquefazione in corso da tempo nelle società occidentali, che vedono progressivamente disgregarsi quelle strutture e quelle norme di funzionamento su cui avevano costruito la loro storia secolare e la loro fortuna. […] Per Bauman, infatti, il modello d’identificazione proposto dal mondo del consumo è talmente convincente che nelle società odierne gli individui devono cercare, proprio come le merci in vendita nel mercato, di rendersi particolarmente attraenti agli occhi degli altri se vogliono sentirsi parte della società in cui vivono. Ne consegue che la società, come ha scritto lo stesso Bauman, “ridefinisce le relazioni interumane a modello e somiglianza delle relazioni tra i consumatori e gli oggetti di consumo” (Consumo, dunque sono, Laterza, p. 15). […] Bauman dunque era convinto che gli esseri umani, nelle società capitalistiche, siano destinati a essere condannati a una condizione di perenne insoddisfazione. Questo perché non sono più vincolati da norme rigide, ma obbligati a essere sempre in movimento, a non fissare mai la propria attenzione su qualcosa in maniera definitiva. Sono cioè in un perenne stato di eccitazione». Una visione piuttosto radicale (come sempre è stato il pensiero di questo mite studioso polacco, poi trasferitosi stabilmente a Leeds, in Inghilterra), nella quale probabilmente tutti riconosciamo qualcosa della nostra esperienza quotidiana in società.
Spesso il merito di un grande uomo di cultura è “semplicemente” dare un nome alle cose. Forse anche nel caso di Bauman è stato così. E non è cosa da poco, visto che se non si conosce il nome di qualcosa è difficile anche affrontarla e, se necessario, combatterla. Insieme ad altri intellettuali che hanno analizzato il postmoderno, il pensiero di Bauman ci aiuta a comprendere meglio il perché di alcune condizioni che rappresentano ormai dei punti di partenza comuni nella vita di ognuno di noi: «Una società di consumatori – spiega il sociologo Giuseppe Sciortino sul Sole 24 Ore – è una società liquida perché tutte le identità possono essere come non essere, tutte le scelte potrebbero essere fatte diversamente, tutte le appartenenze – classe, genere, famiglia, fede, nazione, luogo – ingenerano fedeltà o tradimenti egualmente arbitrari. Il compagno fraterno di oggi può essere il concorrente di domani, e il carnefice del giorno dopo (e noi lo stesso per lui). Un mondo insicuro, che da un momento all’altro può dare troppo o troppo poco». Alzi la mano chi non ha la percezione che le cose stiano esattamente così. Che non vuol dire che necessariamente stanno così: è però il modo in cui, generalmente, tendiamo a pensare che stiano le cose, e che le percepiscano anche gli altri.
Per concludere questa panoramica, ci piace riportare un brano da un’intervista a Bauman citato dal mensile Vita a proposito dei migranti. Un’illuminante interpretazione del perché ci fanno così tanta paura e della generale tendenza a demonizzarli: «Nella nostra società liquida, flagellata dalla paura del fallimento e di perdere il proprio posto nella società, i migranti diventano “walking dystopias”, distopie che camminano. […] Vengono percepiti come “messaggeri di cattive notizie”, come scriveva Bertolt Brecht. Ma ci ricordano, allo stesso tempo, ciò che vorremmo cancellare. Quelle forze lontane, oscure e distruttive del mondo che possono interferire nelle nostre vite. E le “vittime collaterali” di queste forze, i poveri sfollati in fuga, vengono percepiti dalla nostra società come gli alfieri di tali forze. Questi migranti, non per scelta ma per atroce destino, ci ricordano quanto vulnerabili siano le nostre vite e il nostro benessere.
Purtroppo è nell’istinto umano addossare la colpa alle vittime delle sventure del mondo. E così, anche se siamo assolutamente impotenti a imbrigliare queste estreme dinamiche della globalizzazione, ci riduciamo a scaricare la nostra rabbia su quelli che arrivano, per alleviare la nostra umiliante incapacità di resistere alla precarietà della nostra società. E nel frattempo alcuni politici o aspiranti tali, il cui unico pensiero sono i voti che prenderanno alle prossime elezioni, continuano a speculare su queste ansie collettive, nonostante sappiano benissimo che non potranno mai mantenere le loro promesse. E poi alle aziende occidentali il flusso di migranti a bassissimo costo fa sempre comodo. E molti politici sono allo stesso modo tentati di sfruttare l’emergenza migratoria per abbassare ancor più i salari e i diritti dei lavoratori. Ma una cosa è certa: costruire muri al posto di ponti e chiudersi in “stanze insonorizzate” non porterà ad altro che a una terra desolata, di separazione reciproca, che aggraverà soltanto i problemi».
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