Si avvicina la scadenza entro cui l’Unione europea dovrà decidere se concedere o meno una nuova licenza agli agricoltori per continuare a usare il glifosato come pesticida. In un post pubblicato due settimane fa, cercavamo di fare chiarezza su quali fossero le argomentazioni contrarie al suo utilizzo. In calce aggiungevamo alcune considerazioni in merito alla situazione delle politiche agricole in Italia in merito all’utilizzo delle nuove tecnologie chimiche e genetiche. Riprendiamo l’argomento per aggiungere alcune informazioni interessanti che troviamo in due articoli firmati da Stéphane Foucart e pubblicati il 19 e 22 novembre su Le Monde (qui le versioni online, riservate agli abbonati).

Nel pezzo del 22 novembre si cita un nuovo studio sugli effetti del glifosato sui lavoratori del settore agricolo, pubblicato sul Journal of the National Cancer Institute, in cui, pur confermando che non si riscontrano legami diretti tra l’esposizione al glifosato e l’insorgenza di tumori, si introduce la possibilità che al popolare agrofarmaco sia collegata una maggiore incidenza di leucemia mieloide acuta. Presso gli utilizzatori più esposti alla sostanza, dice lo studio, il rischio di contrarre la malattia è più del doppio rispetto a chi non vi è esposto. Il problema (che dà l’idea di quanto sia complesso e ancora da approfondire l’argomento) è che tale rilevazione diventa statisticamente significativa solo nelle persone che sono esposte al glifosato da oltre vent’anni. Come stabilire in un periodo così lungo se, tra i mille possibili fattori di rischio, sia stato proprio il glifosato a causare una variazione nell’incidenza della malattia? Lo studio è dunque molto esposto a possibili distorsioni (e infatti i ricercatori si guardano bene dal trarre conclusioni troppo tranchant, limitandosi ad affermare che i risultati in questo senso non si possono considerare statisticamente rilevanti). Foucart cita il parere di Alain Garrigou, professore di ergonomia all’università di Bordeaux, che introduce l’ipotesi per cui un elemento distorsivo sia rappresentato proprio dall’attrezzatura che dovrebbe proteggere il lavoratore.

«L’equipaggiamento – spiega Garrigou – non protegge necessariamente dai pesticidi e in certi casi può avere l’effetto inverso. Alcuni agrofarmaci penetrano nell’equipaggiamento e vi restano bloccati, aumentando così l’esposizione cutanea dei lavoratori. Questo dipende sia dal materiale di cui è fatta l’attrezzatura, sia dal tipo di pesticida». Dunque, un lavoratore che indossa tutti i dispositivi di sicurezza può risultare più esposto a certe sostanze rispetto a un collega che non li usa.

L’altra storia raccontata da Foucart riguarda direttamente l’Italia, e in particolare l’esperienza di Lorenzo Furlan, agronomo, che racconta come, fin da trent’anni fa (ma succede ancora oggi), in alcune aree del Paese si usassero in maniera massiccia dei pesticidi totalmente inutili, e anzi dannosi per le colture. Furlan si riferisce in particolare alla produzione di mais nel Nord Ovest d’Italia, e al fatto che negli anni ’80 si usasse, tra i vari prodotti, un pesticida che andava a colpire un parassita assente nel 90-95 per cento delle colture. Non un uso “difensivo” dunque, bensì un utilizzo “assicurativo”, con cui i produttori cercavano di ridurre a zero le probabilità che il loro raccolto fosse colpito da tali parassiti. Si tratta di una pratica antieconomica e di forte impatto per l’ambiente. Sulla scorta di questa esperienza, che è continuata nel corso degli anni nonostante siano cambiati i prodotti utilizzati, Lorenzo Furlan si è attivato per trovare una via d’uscita.

L’idea che ha avuto è semplice quanto brillante: creare un fondo mutualistico per assicurare i produttori da un eventuale mancato raccolto. Invece di andare a scavare ulteriormente nella tecnologia, si è quindi creato uno strumento finanziario che ha la funzione di coprire eventuali perdite, a fronte di un investimento incomparabilmente minore da parte dei produttori (si parla di 3-5 euro per ettaro, tra le 7 e le 10 volte meno di quanto costa spruzzare pesticidi inutili sui terreni). Ci sono però diversi ostacoli alla diffusione di questo tipo di pratiche, tra cui i conflitti d’interesse tra le società di consulenza e i produttori di pesticidi. Come spiega Furlan: «In Italia, le società a cui si affidano i produttori per le consulenze tecniche sono le stesse che vendono loro i pesticidi. E agli agricoltori viene detto con insistenza che perderanno i loro raccolti se non utilizzano tali prodotti». Alla luce di questi spunti di riflessione sull’attualità, sarebbe forse un bene smettere di attaccarsi unicamente alla vicenda del glifosato, come se da questa dipendesse il futuro dell’agricoltura in Italia e in Europa, e aprire lo sguardo anche verso altri aspetti del settore, la cui complessità non è seconda a nessun altro.

(Foto di Sindre Aalberg su Unsplash)