C’è una classifica in cui l’Italia, a differenza che in altre discipline, non riesce proprio a schiodarsi dalla bassa classifica. Quella sull’indice di corruzione, stilata ogni anno dall’associazione Transparency international. Sono anni che sul nostro giornale, A tu per tu, teniamo sotto controllo questo indice, e purtroppo non sono mai belle sorprese quelle che ci arrivano. Nel Rapporto 2011 (consultabile qui) siamo finiti addirittura al 69esimo posto, due posizioni più in basso dell’anno scorso.
I dati impressionano di più se estendiamo l’arco temporale agli ultimi quindici anni. In piena Tangentopoli, nel 1995, ci piazzavamo infatti al 33esimo posto. Dieci anni più tardi, nel 2005, eravamo già 40esimi; 55esimi nel 2008, 63esimi nel 2009, 67esimi nel 2010. E siamo all’attualità. Si tratta di un indice frutto di un’indagine statistica, quindi soggetto a errori, distorsioni, imprecisioni. Ma il fatto che a breve distanza si sia classificata anche la Grecia (80esima), Paese con l’economia più scricchiolante dell’Unione, ci dice qualcosa sul perché della perdita di credibilità degli investitori esteri in Italia.
Il problema di questa classifica, poi, è che non si muove. Lassù, in alto, sempre gli stessi nomi, dal 1995 (Nuova Zelanda, Danimarca, Finlandia, Svezia, Singapore, Norvegia, Olanda, Australia, Svizzera e Canada). Noi in caduta libera. Una stagione di lotta alla corruzione da parte della magistratura è servita a spodestare qualche capetto, a scardinare alcune connessioni oscure tra politica ed economia, ma non è bastata a sradicare il problema dalle coscienze. Anzi, un altro meccanismo è entrato in azione, più pericoloso, più subdolo, che ha portato al dilagarsi dei principi deviati dell’interesse personale contro quello generale a ogni ambito della cosa pubblica.
Lo spiegava Beppe Pisanu un anno fa, come ricorda Gian Antonio Stella nel suo articolo sul Corriere del 2 dicembre: «Per certi versi siamo oltre. Allora crollò il sistema del finanziamento dei partiti. Oggi è la coesione sociale, è la stessa unità nazionale a essere in discussione, al punto da venire apertamente negata anche da forze di governo. Si chiude l’orizzonte dell’interesse generale e si aprono le cateratte dell’interesse privato, dell’arricchimento personale, della corruzione dilagante». Stella cita dati interessanti che risalgono al periodo Tangentopoli: «Nel solo 1991 che precedette il cataclisma, disse uno studio del centro Einaudi di Torino, il “presumibile ammontare dei maggiori costi sostenuti dallo Stato per effetto della discrezionalità della decisione politica”, cioè delle bustarelle, era stato tra i 4.500 e 6.500 miliardi. In un solo anno».
Nella relazione sul rendiconto generale dello Stato elaborato dalla Corte dei conti nel 2008, si diceva apertamente che «Il fenomeno della corruzione all’interno della Pubblica amministrazione è talmente rilevante e gravido di conseguenze in tempi di crisi come quelli attuali da far più che ragionevolmente temere che il suo impatto sociale possa incidere sullo sviluppo economico del Paese anche oltre le stime effettuate dal servizio Anticorruzione e trasparenza del ministero della Funzione pubblica, nella misura prossima a 50/60 miliardi di euro all’anno costituenti una vera e propria tassa immorale e occulta pagata con i soldi prelevati dalle tasche dei cittadini».
Con numeri del genere si rimettono a posto i conti dello Stato. Ce lo dovremmo ricordare quando, per l’ennesima volta, ci si chiede di prepararci a manovre “lacrime e sangue”. Come sempre, si mette il cittadino di fronte al fatto compiuto, alla situazione di emergenza, che lo costringe ad accettare ciò che in condizioni normali sarebbe intollerabile. Ma purtroppo, in Italia, viviamo come se fosse stato approvato, in gran segreto, un maxi-emendamento alla legge sulla normalità.