di Federico Caruso

Per contenere il cambiamento climatico entro 1,5°C, evitando così di raggiungere la soglia critica dei 2°C, dovremo cambiare abitudini alimentari a livello globale. Come spiega l’ultimo rapporto IPCC, i governi di tutto il mondo devono attivarsi da subito per intraprendere misure molto radicali per ridurre l’impatto ambientale delle attività umane, altrimenti le conseguenze saranno devastanti. Se infatti un aumento globale delle temperature entro 1,5°C è considerato gestibile (nonostante i rischi e i costi della cosa), sforare la soglia dei 2°C avrebbe conseguenze drammatiche. Per fare un confronto tra i due scenari vi consigliamo di dare un’occhiata a questo articolo del New York Times. Non preoccupatevi se non ve la cavate con l’inglese, è molto intuitivo.

Tra le preoccupazioni degli autori del report c’è l’impatto dell’attuale sistema alimentare, e una ricerca pubblicata su Nature esplora proprio questo aspetto in rapporto al cambiamento climatico. Secondo i ricercatori, spiega il Guardian, nei Paesi occidentali il consumo di carni bovine dovrebbe ridursi del 90 per cento, ed essere rimpiazzato da un consumo cinque volte maggiore di fagioli e altri legumi. A livello globale, ciò significa ridurre del 75 per cento i consumi di carne di manzo, del 90 per cento quella di maiale, dimezzare il numero di uova, triplicare il consumo di fagioli e altri legumi e quadruplicare quello di frutta secca e semi. Questo dimezzerebbe le emissioni prodotte dagli allevamenti e, con una migliore gestione dei concimi, garantirebbe ulteriori risparmi.

I grandi cambiamenti a livello di catena alimentare che i ricercatori vedono come imprescindibili per non sforare le soglie raccomandate sono di tre tipi: un cambiamento di dieta verso un maggiore consumo di prodotti di origine vegetale (una scelta che viene definita “flexitariana”); un miglioramento delle tecnologie produttive e delle pratiche di gestione nella coltivazione della terra, nella gestione delle acque, nell’uso di fertilizzanti; un dimezzamento dello spreco di cibo lungo la filiera produttiva.

Come mostra il grafico, una dieta “flexitariana” (FLX) avrebbe un ruolo molto efficace soprattutto nella riduzione dei gas serra (GHG emissions). Nel perseguire altri obiettivi (la maggiore resa dei raccolti, la migliore gestione delle acque, la riduzione di fertilizzanti a base di nitrogeno e azoto) il peso delle diverse azioni è più distribuito verso l’avanzamento tecnologico e la riduzione dello spreco di cibo, nonostante l’aspetto alimentare abbia comunque un ruolo rilevante. Secondo i ricercatori, il pianeta ha le risorse per permettere la vita anche di 10 miliardi di individui (il numero di persone previste sulla Terra per il 2050), ma solo se si va nella direzione giusta con cambiamenti sostanziali. L’attuale modello occidentale, in cui il consumo di carne è mediamente molto alto, rischia di diventare un modello fuorviante per le tante persone che stanno migliorando le proprie condizioni di vita in varie parti del pianeta (in Cina, per esempio). Se tutti coloro che stanno diventando “classe media” adottassero le attuali abitudini alimentari occidentali, le condizioni del pianeta potrebbero peggiorare sensibilmente.

Come sempre in questi casi, le sfide globali non si vincono solo delegando ai governi le scelte sull’ambiente, né solo attivandosi “dal basso” come cittadini. Ecco perché Marco Springmann, uno dei ricercatori coinvolti nel progetto, commenta così: «Penso che possiamo farcela, ma è necessario che i governi più proattivi creino il contesto. Le persone possono fare la loro parte variando la propria dieta, ma anche bussando alla porta dei loro politici, chiedendo loro migliori regole ambientali. Teniamo aperto il dialogo con la politica».

(Foto di rawpixel su Unsplash)