Dall’anno prossimo potremmo cominciare a trovare sugli scaffali di supermercati e pescherie polpi provenienti da allevamento. Probabilmente costerebbero meno rispetto a oggi, ma non sarebbe comunque una buona notizia per l’ambiente. Alcuni scienziati hanno espresso le proprie preoccupazioni in merito sulla rivista Issues of Science and Technology.
Perché allevare polpi
L’idea di allestire allevamenti intensivi di polpi nasce dal fatto che la pesca si è fatta sempre più difficile e costosa, perché la popolazione nelle aree di pesca sta diminuendo. Nel frattempo, la domanda nei mercati principali continua a crescere. Questi due fattori hanno determinato l’aumento dei prezzi che si registra già da tempo. Da qui l’idea da parte dell’industria ittica di tentare la strada dell’allevamento, in modo da contrarre i costi e aumentare la disponibilità di questo particolare cefalopode. Come scrivono i ricercatori, però, le argomentazioni a favore dell’allevamento sono piuttosto deboli. Le aree in cui si consuma più polpo sono già considerate food secure. Con questa definizione si intende un luogo in cui le persone, per la stragrande maggioranza, hanno accesso al cibo in maniera adeguata dal punto di vista della quantità, qualità, sicurezza e varietà per garantire i bisogni alimentari e le preferenze individuali necessari a condurre una vita sana e attiva. Non c’è dunque bisogno di una maggiore disponibilità di polpo. Ci sono al limite interessi economici al fine di venderne di più, riducendo i costi. “Più polpo per tutti” sembra uno slogan invitante, ma le conseguenze per l’ambiente potrebbero essere molto pesanti.
Chi ne consuma di più
Ogni anno vengono pescate 350mila tonnellate di polpi, due terzi delle quali da parte di compagnie asiatiche (la sola Cina pesa per oltre un terzo del totale). I principali importatori sono il Giappone, la Corea del Sud e i paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo (soprattutto Spagna, Grecia, Portogallo e Italia). La domanda sta crescendo anche in Cina, Stati Uniti e Australia.
I problemi dell’allevamento in acqua
L’acquacoltura si è strutturata nella seconda metà del ventesimo secolo e oggi è un’industria in grande crescita. Attualmente circa 550 specie acquatiche (ostriche, gamberi, trote iridee, tonno, ecc.) vengono allevate in cattività in circa 190 paesi, e ormai la metà del mercato del pesce mondiale è costituita da pesce d’allevamento. I pesci allevati in cattività sviluppano però tratti che rendono questa pratica problematica dal punto di vista etico: tendono a diventare più aggressivi, a sviluppare stress cronico, a ferirsi e ad ammalarsi di più (probabilmente a causa di funzioni immunitarie più deboli). Uno dei problemi dell’acquacoltura è che molte specie sono carnivore e dipendono da proteine e grassi animali per sopravvivere. Ciò vuol dire che per allevare pesci si devono allevare (o pescare) altri pesci. Un terzo della pesca globale è destinata a nutrire animali in cattività, di cui la metà serve per allevamenti in acqua.
Perché allevare polpi è problematico
Fatte queste premesse generali, qualcuno ha pensato che allevare polpi sia comunque una buona idea. I polpi infatti si sviluppano velocemente e hanno una durata di vita media piuttosto bassa (uno o due anni). Secondo una ricerca, il polpo sarebbe dunque «un candidato per l’allevamento industriale». Questa opinione ignora però le considerazioni appena esposte. Inoltre, il “tasso di conversione” alimentare dei polpi è particolarmente elevato, 3:1. Ciò vuol dire che per nutrirli c’è bisogno di cibo per tre volte il loro peso, e stiamo parlando di una specie che si nutre principalmente di pesci e crostacei. Ci sono inoltre problemi etici legati alla complessità comportamentale dei polpi, che sono in grado di provare sensazioni come dolore e sofferenza. Inoltre, secondo i neuroscienziati che hanno scritto la Dichiarazione sulla consapevolezza a Cambridge nel 2012, i polpi risultano essere gli unici invertebrati (almeno finora) consapevoli delle proprie esperienze (se trovano una nuova soluzione a un problema, per esempio, sono in grado di applicarla in situazioni simili anche dopo mesi). Sono inoltre animali piuttosto asociali, che vivono male la presenza di altri soggetti della stessa specie. Allevarli vorrebbe dire quindi probabilmente farli crescere in mini-container individuali, in un ambiente povero di stimoli e quindi molto deleterio per un animale curioso e portato all’esplorazione.
A che punto siamo con la sperimentazione
La Spagna, supportata in parte dall’Unione europea, ha aperto la strada. Esperimenti sono in corso per l’allevamento di Octopus vulgaris in cisterne su terra, in recinti in oceano aperto, e in “ranch” nei quali polpi selvatici sono cresciuti in cattività. Uno degli aspetti controversi della vicenda è data dalla contiguità tra le attività di ricerca e gli interessi delle compagnie ittiche. In Grecia e Portogallo l’azienda Nireus Aquaculture ha fondato impianti di ricerca sull’allevamento. Altre ricerche sono in corso in Messico, Sud America, Cina, mentre in Giappone la compagnia Nissui nel 2017 ha annunciato di essere riuscita a fare schiudere delle uova in cattività, e sostiene di essere pronta a portare sul mercato polpi d’allevamento entro il 2020.
(Foto di Isabel Galvez su Unsplash)