Sullo strumento dell’alternanza scuola lavoro si sono letti in questi mesi resoconti molto discordanti, e opinioni altrettanto divergenti. Ci sono realtà in cui questo provvedimento, introdotto dall’anno scolastico 2015/16, è stato percepito in maniera positiva da studenti, insegnanti e aziende. In altri casi ha dato luogo a evidenti distorsioni del suo intento formativo. Di questi ultimi, alcuni sono finiti sulla stampa nazionale, come accaduto per un albergo sardo che impiegava i ragazzi come manodopera a basso costo in piena estate. In quel caso il paradosso era che uno strumento che si propone di insegnare competenze e dinamiche del lavoro in sé (non quindi competenze professionali specifiche) diventa uno stratagemma per mascherare tirocini sotto pagati, che i ragazzi accettano di fare nella speranza di essere richiamati nella stagione successiva. Come leggiamo dalla Stampa: «Ogni giorno superiamo il numero delle ore previste – racconta uno di loro – Non possiamo rifiutarci, speriamo di essere richiamati anche l’anno prossimo. Saremo già diplomati, magari ci assumeranno e ci daranno uno stipendio». È evidente che in questo caso è mancata una piena comprensione di cosa si intenda per alternanza scuola lavoro, sia da parte dell’azienda che da parte dei ragazzi. E quindi, presupponiamo, anche da parte degli insegnanti, che dovrebbero essere il tramite tra i due soggetti. Ricordiamo che l’alternanza scuola lavoro (d’ora in avanti Asl) è obbligatoria per tutti gli studenti dell’ultimo triennio delle scuole superiori, e prevede che ogni studente trascorra in quell’arco di tempo un certo numero di ore in un ambiente lavorativo: 400 ore per chi frequenta istituti tecnici e professionali, 200 ore per i liceali.

Non si tratta però di un tirocinio, né di uno stage, e nemmeno di un apprendistato, perché, come si diceva, l’obiettivo non è imparare un mestiere. «Il percorso di alternanza scuola-lavoro offre agli studenti l’opportunità di inserirsi, in periodi determinati con la struttura ospitante, in contesti lavorativi adatti a stimolare la propria creatività – si legge sul sito della riforma “Buona scuola” (http://www.istruzione.it/alternanza/cosa_alternanza.shtml) –. La comprensione delle attività e dei processi svolti all’interno di una organizzazione per poter fornire i propri servizi o sviluppare i propri prodotti, favorisce lo sviluppo del “Senso di iniziativa ed imprenditorialità” che significa saper tradurre le idee in azione. È la competenza chiave europea in cui rientrano la creatività, l’innovazione e l’assunzione di rischi, come anche la capacità di piani?care e di gestire progetti per raggiungere obiettivi».

Che si sia d’accordo o meno sull’utilità di questo strumento, bisogna inquadrarlo nel modo giusto per poterlo giudicare. Un interessante articolo di Mila Spicola per iMille si addentra negli aspetti teorici della questione, individuando (in maniera anche più chiara di quanto non faccia il sito istituzionale della riforma) quali sono esattamente le competenze a cui l’Asl dovrebbe portare. In gergo tecnico, si chiamano soft skills, che si distinguono sia dalle competenze di base (leggere, scrivere, far di conto, ecc.), sia dalle hard skills (le competenze professionali specifiche di un lavoro). Spicola le definisce come «le qualità caratteriali necessarie per vivere in un mondo complesso: spirito critico, capacità di risolvere i problemi, creatività, capacità comunicative, spirito di collaborazione, curiosità, spirito d’iniziativa, tenacia, adattabilità, leadership, consapevolezza sociale e culturale». In questo senso, dunque, importa poco l’ambito professionale, così come si legittima la gratuità del lavoro, in quanto attività didattica vera e propria. Ben venga dunque un’iniziativa del genere, almeno nelle intenzioni, in un sistema scolastico come quello italiano, storicamente sbilanciato verso le conoscenze, a discapito delle competenze.

Come spesso capita, però, iniziative anche lodevoli vengono messe in pratica senza i necessari investimenti affinché tutti gli attori del caso siano ben consapevoli di cosa stanno facendo e perché. Nei mesi scorsi è stato effettuato un sondaggio tra gli studenti, per capire la loro percezione della riforma: «Sono stati somministrati oltre 4mila questionari a studenti della quarta superiore degli istituti tecnici, professionali e licei di tutta Italia, nello specifico coloro che avevano già provato l’alternanza – scrive Sara Riboldi su StartupItalia! –. Agli studenti intervistati è stato chiesto di esprimere un giudizio da 1 a 5 rispetto ad alcune caratteristiche dei percorsi. Il 33,20 per cento ha vissuto un’esperienza negativa per quanto riguarda la coerenza tra l’esperienza di alternanza e il percorso scolastico, mentre il 42,80 per cento l’ha vissuta come esperienza positiva. Il 24 per cento ha avuto una percezione intermedia. Il 49 per cento è positivo nell’utilità dell’alternanza per l’acquisizione delle competenze specifiche, il 29,40 per cento è negativo e il 21,60 per cento ha una percezione intermedia». Fin qui gli aspetti generali (ma l’«acquisizione delle competenze specifiche» esula dagli intenti dell’Asl, ribadiamo).

Ciò che manca in molte aziende è un tutor con una formazione specifica sullo sviluppo delle soft skills degli studenti: «Solo il 25 per cento è stato seguito da un dipendente con una delega specifica; il 33 percento degli studenti aveva invece come tutor un dipendente con altre mansioni e il 24,6 per cento degli studenti aveva il datore di lavoro. Il 15,4 per cento degli intervistati ha invece dichiarato di non aver avuto tutor aziendali». Il fatto che in Italia ci siano soprattutto imprese di media e piccola grandezza non facilita certo la formazione di figure specifiche, per mancanza di tempo e risorse da investire. Forse queste ultime dovrebbero allora arrivare dallo Stato. Finché non si interverrà per migliorare questo strumento, continuerà a ripetersi la classica scena da inizio stage/tirocinio generico, con il tutor (quando c’è) a chiedersi: «E adesso che gli faccio fare a ‘sto ragazzo/’sta ragazza?».