Il nuovo piano del governo per ridurre le liste d’attesa negli ospedali è vecchio e serve a poco, perché non mette a disposizione abbastanza soldi e non fa cenno a uno dei tanti problemi, cioè le troppe prescrizioni. Ne scrive Il Post.
Il decreto del governo per la riduzione delle liste d’attesa negli ospedali, approvato mercoledì dal parlamento, contiene molte misure già previste da anni e soprattutto non è finanziato con fondi sufficienti per cambiare davvero le cose. È stata la stessa presidente del Consiglio Giorgia Meloni a ridimensionare le aspettative: «Siamo consapevoli che c’è ancora molto da fare, ma siamo convinti che la direzione sia quella giusta», ha detto, con una formulazione abbastanza tipica di chi non può promettere risultati straordinari. Eppure prima delle elezioni europee il piano per la riduzione delle liste d’attesa era stato presentato come straordinario e risolutivo, per motivi più che altro elettorali.
Tra le varie novità approvate, una delle più celebrate dal governo è la creazione della piattaforma nazionale delle liste d’attesa, un sistema per controllare che le regioni – in Italia la sanità è di competenza regionale – rispettino le priorità indicate sulla ricetta. Le classi di priorità sono indicate dai medici e sono: U per urgente, B per breve, D per differibile e P per programmata. A ogni classe corrisponde un tempo massimo in cui il sistema sanitario deve garantire la visita o l’esame: entro 72 ore se è urgente, entro 10 giorni se è breve, entro 30 giorni per prestazioni differibili, entro 120 giorni quando sono programmate.
In realtà la piattaforma era già prevista a livello regionale dal 2019 e finora non è servita a molto, soprattutto perché ogni regione l’ha costruita con criteri diversi. La novità consiste nel passaggio dei dati dalle regioni all’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (AGENAS), che avrà più sotto controllo le situazioni critiche.
(Foto di Harlie Raethel su Unsplash)
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