Vista dallo spazio, la Foresta Amazzonica non appare un ecosistema sull’orlo del baratro. La sua enorme estensione ospita all’incirca 390 miliardi di alberi, che dall’alto la fanno sembrare un mare verde.

Eppure, le immagini satellitari scattate negli ultimi decenni rivelano che più del 75 per cento della foresta pluviale sta perdendo la propria capacità di resilienza, secondo uno studio pubblicato lunedì sulla rivista Nature Climate Change e citato in un articolo del Washington Post. La sia vegetazione è più secca e impiega più tempo a rigenerarsi dopo un evento di disturbo, anche nei tratti più densamente ricoperti da vegetazione.

Questa fragilità, secondo gli autori dello studio, è un allarme del fatto che l’Amazzonia si sta avvicinando al suo “punto di non ritorno”. Tra l’aumento delle temperature e l’impatto delle attività umane, l’ecosistema potrebbe subire un improvviso e irreversibile declino. Più della metà della foresta pluviale potrebbe convertirsi in savana nel giro di pochi decenni: una transizione che metterebbe in pericolo la biodiversità, cambierebbe i modelli meteorologici regionali e accelererebbe drammaticamente il cambiamento climatico, spiega il Post.

Storicamente, l’Amazzonia è stata uno dei più importanti “bacini di assorbimento di anidride carbonica” della Terra, raccogliendo miliardi di tonnellate di CO2 dall’aria e conservandola nella vegetazione. I ricercatori temono che l’improvviso rilascio nell’atmosfera di queste sostanze metterebbe l’obiettivo climatico più ambizioso dell’umanità – limitare l’aumento della temperatura a 1,5 gradi centigradi – fuori portata.

Secondo gli scienziati l’Amazzonia è un ecosistema che non peggiora gradualmente, ma tende a passare bruscamente da uno stato a un altro, con pochissimo preavviso.

Negli ultimi 50 milioni di anni, l’Amazzonia è stata una foresta pluviale umida. Gli alberi stessi ne hanno assicurato l’esistenza: l’acqua che evaporava dalle foglie creava un ciclo infinito di precipitazioni, mentre il denso manto vegetativo impediva al sole di seccare il suolo. I contorni della foresta possono essersi spostati un po’ in risposta alle ere glaciali, agli incendi e all’innalzamento dei mari, ma essa è sempre stata in grado di tornare al suo stato rigoglioso.

Il riscaldamento globale e la deforestazione causati dall’uomo hanno compromesso questo sistema auto-rigenerante. Il riscaldamento dell’Oceano Atlantico ha allungato la stagione secca di settimane. Abbattendo circa il 17% degli alberi, l’uomo ha compromesso il meccanismo di riciclo dell’acqua della foresta. Gli alberi, stressati dalla siccità, sono ora più vulnerabili agli incendi. E più alberi muoiono, meno pioggia cade, il che a sua volta peggiora la mortalità degli alberi.

A un certo punto, è possibile che l’ecosistema perda più alberi di quanti ne possa recuperare.

Esaminando tratti di foresta con almeno l’80% di copertura arborea a foglia larga – aree che non sono state pesantemente colpite dalla deforestazione – i ricercatori hanno scoperto che la stragrande maggioranza delle aree di foresta si riprende più lentamente dalle fluttuazioni stagionali rispetto a 20 anni fa.

L’articolo di Nature Climate Change non indica quando l’Amazzonia potrebbe superare questa pericolosa soglia. Anche una volta che l’ecosistema è stato destabilizzato, può continuare a esistere fino a quando una forza esterna – per esempio un gigantesco incendio o una grave siccità – lo porta oltre il limite. Il punto di non ritorno potrebbe non essere evidente fino a quando non è troppo tardi per fare qualcosa, ha detto uno degli autori dello studio.

La perdita della foresta pluviale potrebbe segnare la scomparsa del 10 per cento delle specie conosciute che vivono in Amazzonia, mettendo in pericolo milioni di persone che dipendono dal suo ecosistema.

Superare il punto limite significherebbe anche liberare in atmosfera l’equivalente di diversi anni di inquinamento globale da gas serra nell’atmosfera. Già ora gli studi mostrano che alcune aree dell’Amazzonia producono circa 300 milioni di tonnellate di anidride carbonica in più di quella che estraggono dall’aria, una quantità simile alle emissioni annuali del Giappone.

Le conseguenze di una tale perdita si farebbero sentire a migliaia di chilometri di distanza e per i secoli a venire, avvertono gli scienziati. Genererebbe un’escalation di tempeste e un peggioramento degli incendi, carenze croniche di cibo e quasi 30 centimetri di innalzamento del livello del mare per le comunità costiere. Potrebbe innescare altri eventi critici, come lo scioglimento dei ghiacci o l’interruzione del monsone sudamericano.

Tuttavia, a differenza di questi ultimi, che rispondono solo alla quantità di calore che le attività umane intrappolano nell’atmosfera terrestre, l’Amazzonia è spinta verso il suo punto di non ritorno da due forze: la deforestazione e il cambiamento climatico. Questa, in qualche modo, è una buona notizia. Significa che l’uomo può fare qualcosa: fermare immediatamente la deforestazione.

(Foto di Vlad Hilitanu su Unsplash)

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