Come abbiamo scritto di recente, l’ambiente sarà (dovrà essere) uno dei temi principali del 2019. Il giornalista Pietro Greco propone una riflessione in proposito, pubblicata qualche giorno fa su Micron, a partire da una celebre fotografia.
L’alba di una vecchia Terra. È questa l’immagine del nostro pianeta che il 24 dicembre 1968, cinquant’anni fa, l’astronauta William Anders scattò dall’astronave Apollo 8 che stava orbitando intorno alla Luna. La piccola arancia bianca e blu sembrava sorgere all’orizzonte del nostro satellite naturale che, con uno spicchio in primo piano, appare invece in tutta la sua aridità.
Per ricordare quella storica fotografia, il Working Group for Planetary System Nomenclature dell’International Astronomical Union (IAU) ha voluto battezzare con il nome di Anders’ Earthrise (l’alba terrestre di Anders) il cratere lunare che appare in primo piano e 8 Homeward (il ritorno di 8, inteso come Apollo) il cratere vicino.
E, in effetti, quella fotografia è davvero storica. Per una ragione tecnica, certo: perché era la prima volta che l’umanità poteva vedere come appare la Terra vista dalla Luna. Ma anche e soprattutto per una ragione culturale ed ecologica: quell’immagine, bellissima, ci dava la misura della fragilità e, dunque, del prezioso valore del nostro straordinario pianeta. Straordinario in senso, ancora una volta, tecnico: perché è l’unico a nostra conoscenza su cui è presente la vita.
Non è, dunque, sorprendente che la fotografia di William Anders – che in un recente editoriale la rivista Nature definisce una delle immagini più importanti nella storia della scienza e, forse, dell’intera storia umana – sia diventata immediatamente un’icona del movimento ambientalista.
Erano gli anni in cui l’ambiente stava diventando un tema politico frequentato dalle grandi masse. Era iniziato, quel movimento, appena cinque anni prima, anche grazie alla pubblicazione da parte di Rachel Carson di un libro seminale, The Silent Spring: la primavera silenziosa. Non si sentiva più nelle campagne il canto degli uccelli, uccisi giù prima che uscissero dal guscio del loro uovo dai pesticidi sparsi a piene mani dai contadini. Segno che l’impronta umana sull’ambiente stava diventando sempre più profonda. E deleteria.
Meno di cinque anni dopo, nel 1972, a Stoccolma le Nazioni Unite convocheranno il “primo vertice della Terra”, una conferenza internazionale, anch’essa seminale, su ambiente e sviluppo umano. A presiedere quella conferenza fu il canadese Maurice Strong, amministratore della Rockefeller Foundation. E proprio la sua fondazione è incaricata da Strong di finanziare un rapporto sullo stato del pianeta affidandolo all’economista inglese Barbara Ward e al biologo americano di origini francesi René Dubos. Il rapporto portava in prima pagina la foto della Terra vista dalla Luna e si intitolava Only One Earth. The care and maintenance of a small planet: una sola Terra. La cura e la preservazione di un piccolo pianeta.
Sì, la fotografia di William Anders aveva assolto a una grande missione e si era trasformata in un potente messaggio culturale. Anzi, in due. Primo: viviamo su un piccolo e fragile pianeta e abbiamo il dovere di tutelarlo. Secondo: la piccola e fragile Terra è la casa comune dell’intera umanità.
Cosa ne è di quei messaggi, cinquant’anni dopo? Non c’è dubbio: la consapevolezza ecologica di noi uomini sedicenti sapienti è aumentata. Oggi c’è una consapevolezza diffusa che viviamo su un piccolo pianeta, la nostra casa, da tutelare. Non è poca cosa. È una conquista culturale di incommensurabile valore.
Purtroppo questa consapevolezza così radicalmente nuova non si è trasformata (non ancora, almeno) in un’azione radicalmente nuova e globale. L’impronta umana sull’ambiente continua ad aumentare e, malgrado gli sforzi delle Nazioni Unite, tutti i paesi resistono, chi più chi meno, all’idea di dover agire in maniera coordinata. Di dover creare un governo mondiale dell’ambiente Terra.
Abbiamo avuto una prova di questa resistenza – sostiene Nature – nelle scorse settimane a Katowice, in Polonia. COP24 non è riuscita ad accelerare l’impegno delle nazioni (non abbastanza) unite per prevenire i cambiamenti climatici come indicato con estrema chiarezza degli scienziati dell’IPCC. La nostra è sì una nuova consapevolezza, determinata anche dalla foto scattata da William Anders quel 24 dicembre di cinquant’anni fa. Ma è una consapevolezza disarmata. Ancora incapace di trasformarsi in azione conseguente. Che il 2019 ci faccia compiere quest’altro, decisivo passo.
(Fonte foto: Wikipedia)
Totalmente d’accordo. Leggete l’articolo di Brooke Jarvis ( The New York Times) comparso sul numero attualmente in edicola de Internazionale ( nr 1289 11-17 gennaio). E’ drammaticamente preoccupante il crollo della popolazione di insetti nel mondo. Ma la domanda che mi pongo è: cosa faccio io affinché i politici prendano misure contro il riscaldamento globale?
Da anni ormai gli scienziati denunciano il disastro climatico a cui l’umanità sta correndo incontro, purtroppo con scarsi risultati.
Fino a quando le multinazionali padrone del mondo (e i politici di turno loro complici) penseranno solo all’avidità e ai soldi, il countdown verso la catastrofe non si fermerà mai.
Chissà, forse fra qualche secolo, dopo che ci saremo estinti, la cara vecchia Terra riuscirà lentamente a guarire da tutti i mali che le ha causato l’umanità, con il suo sciagurato passaggio… A meno che nel frattempo non riusciamo a colonizzare nuovi meravigliosi pianeti, da inquinare e devastare in cerca di ricchezza e profitto.