I nuovi materiali compostabili che sostituiscono bicchieri e posate di plastica sono efficaci contro i problemi dell’ambiente? Probabilmente no: non hanno un impatto significativo, e in alcuni casi potrebbero anche peggiorare la situazione. È ciò che sostiene George Monbiot, columnist del Guardian che si occupa di ambiente e attivismo ambientale. In un suo articolo, tradotto in italiano sull’ultimo numero di Internazionale, ha scritto: «Il mese scorso una richiesta fatta alle catene di caffè Starbucks e Costa perché rimpiazzassero i bicchieri di plastica con quelli di amido di mais è stata ritwittata 60mila volte, prima di essere cancellata. I sostenitori dell’appello avevano dimenticato di chiedersi da dove viene l’amido di mais, quanta terra serve a coltivarlo e quali conseguenze ci sono per la produzione alimentare. E avevano ignorato altri aspetti: la coltivazione del mais causa l’erosione del suolo e spesso richiede ingenti dosi di pesticidi e fertilizzanti». L’errore di fondo in questo tipo di iniziative sta proprio alla base.
Se ci si pone l’obiettivo di continuare a condurre lo stile di vita consumistico al quale siamo abituati (e al quale di anno in anno sempre più persone nel mondo accedono), presto renderemo la Terra un pianeta inabitabile. Il problema dunque, per tornare all’esempio iniziale, non è tanto se utilizzare o meno le posate in plastica o in materiale compostabile: il problema è la cultura dell’usa-e-getta. Attualmente, denuncia Monbiot, consumiamo come se avessimo a disposizione quattro pianeti, invece che uno (l’unico che ospiti forme di vita, per quel che ne sappiamo). «Quando ho contestato l’appello a Starbucks e Costa mi hanno chiesto: “E cosa dovremmo usare?”. La domanda corretta è: “Come dovremmo vivere?”. Ormai, però, il pensiero sistemico è una specie in via d’estinzione». Il pensiero sistemico richiede di rendersi conto di quali sono gli impatti reali dei diversi fenomeni, anche in senso aggregato.
Purtroppo, cambiare le nostre abitudini di vita individuali, non è sufficiente. Intendiamoci: nessuno sta dicendo che non sia utile e necessario, ma non è abbastanza. «È giusto dire che ognuno di noi dovrebbe ridurre al minimo il proprio impatto ambientale, ma non possiamo affrontare questi sistemi semplicemente assumendoci la responsabilità dei nostri consumi». A volte ci si concentra molto su un singolo aspetto di un problema, ignorandone i contorni generali. Monbiot fa un esempio molto efficace che riguarda i sacchetti di plastica e la pesca dei gamberi: «Una nota ambientalista ha postato una foto dei gamberi appena comprati, vantandosi di aver convinto il supermercato a metterli nel suo contenitore invece che in un sacchetto di plastica, e sostenendo di aver contribuito così a tutelare i mari. Il semplice acquisto dei gamberi, però, causa danni alla vita marina decisamente maggiori rispetto ai sacchetti di plastica. La pesca dei gamberi porta alla cattura di molte tartarughe e altre specie a rischio, mentre allevarli è altrettanto nocivo perché distrugge ampi tratti di foreste di mangrovie, essenziali per la sopravvivenza di migliaia di specie».
Altri dati sulla pesca confermano che spesso si cerca la soluzione del problema nel posto sbagliato. «I rifiuti marini, per esempio, sono causati in gran parte dalla pesca. Il 46 per cento dell’isola di plastica del Pacifico (Great Pacific garbage patch), simbolo della nostra società dei consumi, è composto da reti abbandonate, mentre il restante 54 per cento è dominato da altri materiali usati nel settore. Quanto ai sacchetti e alle bottiglie di plastica, la maggior parte proviene dai paesi poveri, privi di impianti di smaltimento efficienti».
È giusto e importante che ognuno si impegni ad avere un impatto ridotto sul pianeta, prendendosi la propria parte di responsabilità nel processo. Ma bisogna andare oltre: «Vivere su un unico pianeta non significa solo ridurre i consumi, ma anche mobilitarsi contro l’apparato che promuove la grande montagna di spazzatura. Significa quindi combattere le multinazionali, produrre risultati elettorali diversi e sfidare quel sistema basato su crescita e consumismo che chiamiamo capitalismo». Il passaggio più difficile è proprio rendersi conto di quanto siamo immersi nell’ideologia del consumismo. Da decenni ormai siamo spinti in questa direzione, e le grandi aziende sono molto abili a intercettare le sensibilità ambientaliste proponendo soluzioni rassicuranti. Mettendo in salvo la coscienza del consumatore, e dandogli l’impressione che piccoli accorgimenti bastino a risolvere grandi problemi.