In Italia, le leggi sono più biodegradabili dei sacchetti. Dal primo gennaio, lo ricorderete, è entrata in vigore la legge che impone il «divieto di commercializzazione dei sacchi da asporto merci non conformi ai requisiti di biodegradabilità», che recepisce la norma europea En 13432 sui «Requisiti per imballaggi recuperabili mediante compostaggio e biodegradazione». Su questa materia, in Italia, siamo in ritardo rispetto agli altri Paesi europei, tant’è che, come denuncia Stefano Ciafani, responsabile scientifico di Legambiente, «noi italiani consumavamo un quarto di tutti [i sacchetti] usati in Europa: tra i 20 e i 25 miliardi sui 100 miliardi totali». Ma, invece di fare tesoro delle esperienze altrui, il legislatore ha varato una norma che non precisa esattamente la composizione dei nuovi sacchetti, definendoli genericamente “biodegradabili”, non citando il concetto di “compostabilità”. Termine orribile, che racchiude un concetto così spiegato dal Consorzio italiano compostatori (Cic): «Perché i manufatti in bioplastiche o prodotti a base di cellulosa possano entrare efficacemente nel circuito del riciclo di materia (compostaggio) e quindi si possa “chiudere il cerchio” della raccolta/riciclo/riutilizzo, è fondamentale che sia attestata la riciclabilità organica, ovvero la compostabilità, intesa come l’effettiva degradazione in un sistema biologico attivo qual è il compostaggio». Come stabilire i criteri per la composizione dei nuovi sacchetti? Semplice, basta rispettare gli standard En 13432. Insomma, bastava leggere e copiare.
Perché ce la prendiamo tanto con questa lacuna normativa? Perché purtroppo, in tanti sono già riusciti ad aggirare il divieto, giocando proprio sulla genericità delle definizioni. È così che sono entrati nel mercato i sacchetti oxodegradabili (anche le parole si fanno sempre più difficili da smaltire). In sostanza, le nuove “sportine” non sono altro che classici sacchetti in plastica al 99%, con l’1% di additivo biodegradabile. Il problema di questo tipo di processo è che il sacchetto non segue il processo di degradazione necessario a finire nel compost: «I sacchetti con oxoadditivi finiscono in milioni e milioni di piccoli frammenti, che rimangono nell’ambiente, non vengono biodegradati e quindi vanno nella catena alimentare: finiremo per mangiarli noi!», spiega David Newman, direttore del Cic. Come difendersi da tutto ciò? Ci sono due modi: accertarsi che sul sacchetto ci sia la certificazione di compostabilità, oppure tornare alla borsa “della nonna”, in tela, juta o vimini, che non sarà biodegradabile, ma ha una possibilità di riutilizzo teorica di qualche decennio.
In chiusura, segnaliamo il caso dell’eco-Caronte di Venezia, Renato Savoldello, dell’impresa di pompe funebri più antica della città, che si è specializzato nell’organizzare un unico giro in gondola -sola andata- sul braccio di mare di 412 metri che separa il ponte dei Mendicanti dall’isola di San Michele. Fin qui niente di strano, in tanti, nel corso della storia, hanno deciso di fissare qui la propria dimora eterna. Ma Savoldello «è il primo in Italia a farti compiere l’ultimo viaggio dentro una scatola di cartone, una bara biodegradabile al cento per cento, chiusa da collante a nastro, con maniglie, piedini e persino il crocifisso ottonato in Mater-Bi, lo stesso materiale usato per i sacchetti dei rifiuti umidi, che nel giro di 40 giorni si trasforma in acqua, anidride carbonica e metano». Le motivazioni che l’hanno spinto a fornire questo servizio? Semplice: «Sono un ecologista vero».