Esplorando la mostra Anthropocene, in programma al MAST di Bologna fino al 22 settembre, la sensazione è di essere spettatori del nostro tempo. I contenuti che danno forma alla mostra sono le enormi stampe delle foto scattate da Edward Burtynsky, assieme ai film di Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier. La mostra prende il titolo dall’era geologica secondo cui, secondo alcuni scienziati, siamo entrati da alcuni decenni, l’Antropocene. Come si può intuire dalla parola, il nome mette al centro del periodo geologico l’uomo, inteso come attore responsabile di grandi cambiamenti e sconvolgimenti ai danni del pianeta.
A completare la mostra il film Anthropocene: The Human Epoch, un documentario (che viene proiettato più volte al giorno gratuitamente, come il resto della mostra) nell’auditorium della struttura. Il documentario, che è stato girato nel corso di quattro anni dagli stessi autori della mostra, contribuisce a creare un dialogo tra i diversi contenuti. A differenza della parte fotografica, però, nel film emerge più chiaramente l’aspetto umano, le persone che vivono i diversi luoghi mostrati. Ci sono gli abitanti dei villaggi evacuati da una regione per fare posto a un’enorme miniera di carbone a cielo aperto in Germania, oppure i tecnici che orgogliosamente lavorano nelle vasche di evaporazione del litio nel deserto di Atacama, in Cile. Entrare, anche se per poco, nelle vite delle persone che abitano questi luoghi mette in luce la complessità del problema. Per molte di loro una miniera, un enorme impianto di lavorazione o un’area di agricoltura intensiva sono fonte di reddito per sé e per la propria famiglia. Ci sono intere comunità che nascono e si sviluppano intorno a un unico enorme impianto. Per molte altre persone gli stessi luoghi sono una condanna a una vita insopportabile, o la causa per cui sono costretti a fuggire o accettare una ricollocazione forzata. Le foto scelgono una prospettiva diversa, dall’alto, dove si mettono in luce l’imponenza della natura e quelle delle capacità tecniche dell’uomo. La figura umana, se c’è, scompare di fronte alla grandiosità delle sue stesse opere.
Uno dei problemi rispetto all’impatto dell’uomo sull’ambiente è che difficilmente si riesce ad avere una visione d’insieme. Spostare lo sguardo molto in alto aiuta a vedere nettamente i confini degli interventi umani, e quanto devastanti siano verso l’ambiente che oltraggiano. Allargare l’inquadratura diventa anche un modo per allargare la percezione temporale. Un altro problema di fenomeni quali l’emergenza climatica è che non li vediamo, o comunque i loro effetti sono percepiti come eventi indipendenti. La loro evoluzione è troppo lenta, troppo diffusa per la percezione umana del tempo e dello spazio.
C’è un fondo di ottimismo che emerge in alcuni momenti della mostra, soprattutto nei testi che l’accompagnano: la fiducia nella tecnica come strumento per invertire la rotta. Ma potremo riparare ai guai che abbiamo causato con gli stessi strumenti con cui ci siamo finiti? Ci auguriamo di sì, ma lo scetticismo è forte. Proprio questo grande contenuto di tecnica (le dighe, le pale eoliche, le piattaforme di estrazione, i macchinari) è ciò che contribuisce a far sentire il visitatore uno spettatore del suo tempo. Ogni cosa mostrata è frutto di un’iper-specializzazione che necessita di competenze enormi per essere anche solo capita, se non agita. Da tutta quella tecnica dipende il nostro stile di vita: il carburante per i veicoli, le batterie degli smartphone, le plastiche e i metalli degli oggetti che utilizziamo tutti i giorni. L’enorme distanza tra la nostra esperienza quotidiana e il processo di produzione di ciò che informa il nostro stile di vita sono talmente distanti che la cosa più difficile non è tanto avere coscienza del problema, ma capire cosa ci possiamo fare.