
Oggi presentiamo la traduzione di una parte dell’intervista realizzata dal quotidiano inglese the Guardian alla scrittrice indiana Arundhati Roy a proposito del movimento “Occupy Wall street”. La Roy è stata con i manifestanti prima che iniziassero gli sgomberi della polizia, e da questa esperienza trae alcune interessanti riflessioni sulla politica. A partire da quella che dà il titolo al pezzo: “Non saranno i personaggi che hanno causato la crisi a darci le soluzioni per uscirne” (il testo originale si può trovare qui).
The Guardian: Pensi che il movimento Occupy possa essere definito dal fatto di occupare uno spazio in particolare o piuttosto dal fatto di occupare in generale?
Arundhati Roy: Non penso che il cuore della protesta sia l’occupazione di un territorio fisico, bensì la capacità di innescare una nuova immaginazione politica. Non penso che lo stato [americano] permetterebbe l’occupazione di uno spazio se non sentisse che questa concessione porti a una sorta di compiacenza, e che l’efficacia e urgenza della protesta siano destinate a estinguersi. Il fatto che a New York e in altre città la gente sia picchiata e cacciata suggerisce nervosismo e confusione nei centri di potere.
Penso che il movimento sia -o sarebbe- destinato a diventare un movimento proteiforme di idee, e di azione, dove l’elemento della sorpresa sia sempre in mano ai manifestanti. Dobbiamo preservare l’elemento dell’agguato intellettuale e di una manifestazione fisica che prenda di sorpresa il governo e la polizia. Il movimento deve continuare a re-immaginare se stesso, perché il mantenimento di un territorio non sarà mai concesso da uno stato così potente e violento come gli Stati Uniti.
TG: Hai scritto delle cose a proposito della necessità di una diversa immaginazione rispetto a quella del capitalismo. Ce ne puoi parlare?
AR: Spesso confondiamo o usiamo in maniera impropria le idee di “capitalismo clientelare” o neoliberismo per evitare in realtà la parola “capitalismo”. Ma una volta che hai visto ciò che accade, per esempio, in India o negli Stati Uniti -e cioè che questo modello di economia americana impacchettata e corredata di etichetta con la scritta “democrazia” è imposto in Paesi di tutto il mondo, militarmente se necessario- ti accorgi che negli stessi Usa il risultato è che le 400 persone più ricche possiedono l’equivalente di ciò che ha la metà della popolazione. A migliaia stanno perdendo il lavoro e la casa, mentre le multinazionali sono foraggiate con miliardi di dollari.
TG: Come scrittrice, che uso fai del termine “occupazione”, che ultimamente ha recuperato un’accezione positiva, mentre è sempre stato tra i più atroci nel linguaggio politico?
AR: Ho detto spesso che tra le cose che dobbiamo recuperare, oltre alle oscene ricchezze dei miliardari, è il linguaggio. Che è stato spogliato del suo senso fino a significare l’opposto di ciò che realmente intende, come quando si parla di democrazia e libertà. Quindi penso che portare la parola “occupazione” a identificare qualcosa di positivo sia buona cosa, anche se ci si può lavorare ancora. Dovremmo dire: «Occupy Wall Street, not Iraq», «Occupy Wall Street, not Afghanistan», «Occupy Wall Street, not Palestine». Le due formule devono essere messe assieme. Altrimenti le persone potrebbero non cogliere il messaggio profondo.