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Tre anni fa il governo presieduto da Mario Monti decretava la chiusura dell’Agenzia per il terzo settore. In questi giorni si è tornati a parlare della possibilità di istituire nuovamente un ente simile, per garantire una vigilanza imparziale sul mondo del non profit. Voci subito smentite, perché la competenza sarà affidata al Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Il che viene presentato come una novità, quando invece non lo è, visto che è già così fin dalla chiusura dell’Agenzia. L’elemento di novità, se vogliamo, è il fatto che in futuro sarà prevista la collaborazione di altri ministeri interessati e dell’Agenzia delle entrate. Il tutto affinché questo sistema di controllo abbia «un ruolo più incisivo», ha detto la relatrice della Legge delega di riforma del terzo settore, Donata Lenzi, presentando l’emendamento in questione. Emendamento che è poi stato approvato dalla commissione competente alla Camera, nonostante questa fosse in maggioranza propensa alla creazione di un’autorità indipendente, come ha raccontato il deputato Edo Patriarca a Vita.

Il motivo principale per cui alla fine la commissione ha ceduto di fronte alla posizione di chiusura del governo è stato il fattore economico. Secondo l’esecutivo una nuova agenzia avrebbe comportato costi e burocrazia impossibili da sostenere. Diventa così definitiva la decisione del governo Monti che, secondo quanto dice Stefano Zamagni (all’epoca presidente dell’Agenzia), doveva essere una misura transitoria, in attesa di istituire un sistema di controllo e indirizzo indipendente per il terzo settore con una formula diversa. In realtà non è poi così scontato il fatto che istituire una nuova authority comporterebbe automaticamente nuovi costi per lo Stato. Attualmente, infatti, l’onere del controllo è suddiviso tra molti uffici sparsi per tutto il Paese, facendo sì che da un lato ci sia una gestione molto meno efficiente delle risorse, e dall’altro che a occuparsene siano persone con le competenze più diverse, a tutto svantaggio della qualità del lavoro. Lo spiegava molto chiaramente Carlo Mazzini in un suo articolo pubblicato a giugno dell’anno scorso, in cui faceva un paragone tra il nostro sistema e il costo della Charity Commission inglese:

«Ci sono ben più di 300 amministrazioni interessate al controllo diretto del non profit: Prefetture, Regioni, Province (non tutte), Ministeri, Asl. Stiamo bassi: sono 300. Vogliamo essere stretti anche nelle risorse umane e ritenere che in ogni amministrazione siano dedicate due risorse e mezzo per il non profit. Due di gestione diretta e un’altra dirigenziale per metà tempo (fa anche dell’altro, ha altre responsabilità). Stiamo parlando di più di 700 dipendenti pubblici che gestiscono i diversi registri, con tutte le incongruenze che conosciamo. Ad esempio, se si passa il confine di una provincia, ci si sente chiedere un diverso capitale minimo per costituire un ente riconosciuto (fondo di dotazione). Si va da 10mila euro a 120mila euro, senza alcuna ragione, solo perché il Prefetto quel mattino ha ritenuto che per la sicurezza dei creditori sia necessario mettere da parte tante risorse (non utilizzabili dall’ente); tanto non sono mica soldi del Prefetto! Lo spreco è quindi doppio: troppi dipendenti pubblici (più di 700 contro 300 della Charity Commission) e regole differenti che nulla hanno a che fare con l’indipendenza di giudizio del decisore pubblico».

Non c’è dubbio che un’authority forte sarebbe un soggetto importante per garantire un controllo davvero indipendente sul terzo settore, non soggetto alle bizze della politica come lo è invece un ministero. Da quando è stata soppressa l’Agenzia, per esempio, il ministro del Lavoro è cambiato due volte, mentre il presidente di un’authority, una volta eletto, resta in carica per tutto il mandato, non vive in costante clima da campagna elettorale come i nostri politici. Un’authority forte, dicevamo e lo ribadiamo, che abbia coraggio e indipendenza nelle decisioni, e che magari possa evitare il ripetersi di un’altra “Mafia Capitale”.