Difficile per i non addetti ai lavori capire il meccanismo che ha portato al recente salvataggio di quattro banche italiane (Banca Marche, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di Risparmio di Ferrara e CariChieti), ma ci proviamo. Soprattutto per renderci conto se, nonostante le rassicurazioni del governo, ci sia la possibilità che sul lungo periodo siano i contribuenti a dover, appunto, contribuire. I quattro istituti in questione sono accomunati da quella che il Sole 24 Ore definisce una «gestione disinvolta del credito».

Negli ultimi anni tutte e quattro hanno continuato – per volontà della dirigenza, che poi si è volatilizzata come vampiri alla luce del sole – a concedere crediti a clienti che presentavano altissimi rischi d’insolvenza. «Prestiti a piene mani spesso decisi dai vecchi manager in assoluta solitudine e dati a clienti non meritevoli o peggio ad amici degli amici – scrive Fabio Pavesi –. La “sana e prudente gestione del credito”, come recita il dovere di ogni banchiere, non era di casa in quelle banche». Situazioni che si protraggono nel tempo, nonostante i richiami e le sanzioni della Banca d’Italia. I portafogli rimangono così in cattiva salute, peggiorando progressivamente, finché non scattano il commissariamento, le inchieste, l’ombra del fallimento.

Dopo varie proposte di risanamento presentate alla Commissione europea, il governo ha dovuto trovare un modo per mediare tra le due modalità d’intervento possibili in questi casi, che in gergo si chiamano bail-in e bail-out. In sostanza, nel primo caso le situazioni di crisi vengono risolte con l’impiego di capitali privati, siano essi altri istituti, aziende, investitori, ma anche azionisti e correntisti della banca che viene “salvata”. Nel secondo caso, ed è ciò da cui l’Unione europea sta cercando di allontanarsi definitivamente, è lo Stato a mettere i soldi per l’operazione. Ovviamente a Bruxelles non avrebbero mai accettato un bail-out, così ci si è dovuti inventare il modo per far entrare nell’operazione soggetti privati.

Vediamo in cosa consiste il meccanismo adottato, così come descritto in un altro articolo del Sole: «Con il decreto approvato [il 22 novembre] da un Consiglio dei ministri convocato ad hoc, le banche italiane “sane” metteranno sul piatto 3,6 miliardi di euro per il salvataggio. Una cifra che – come anticipato dal Sole 24 Ore – sarà anticipata al Fondo di Risoluzione (lo strumento che operativamente realizzerà il salvataggio) da due linee di credito interamente messe a disposizione da Intesa Sanpaolo, UniCredit e Ubi a tassi di mercato e con scadenza massima di 18 mesi: la prima verrà rimborsata quando le banche ponte e i crediti deteriorati troveranno il modo di essere valorizzati sul mercato. La linea a breve, invece, sarà già ripianata entro fine anno grazie al contributo delle 208 banche del sistema non-Bcc che anticiperanno non solo i 500 milioni di contributi per il fondo di risoluzione previsti per il 2015, ma anche tre annualità straordinarie, per un totale di 2 miliardi. In questo caso si tratta di oneri che dovranno essere computati nei bilanci 2015 (anche se il Cdm ha previsto una revisione della disciplina fiscale con la possibilità di un pagamento differito delle imposte)». Detto in altre parole, oltre la metà del contributo necessario a rilevare le banche “malate” arriverà da un anticipo dei versamenti destinati al Fondo di risoluzione relativi ai prossimi tre anni.

La cosa che viene da chiedersi immediatamente è: se nei prossimi tre anni fallissero altre banche, come si farà con il Fondo a secco? Si passerà alla versione strong del bail-in (quella caldeggiata dall’Europa), che prevede il contributo principalmente di azionisti e correntisti? Sono solo domande, ma non siamo solo noi a porcele (vedi: Sbilanciamoci.info e Lavoce.info), e quindi forse così ingenue non sono. Vi ricordate cosa successe a Cipro nel 2013? Allora il prelievo forzoso (per i conti superiori a 100mila euro) ci fu, con l’avallo della Banca centrale europea.

È bene ricordare che dal primo gennaio 2016 entrerà in vigore la direttiva europea sul bail-in, quindi operazioni come quella di Cipro saranno più probabili che in passato (e non è detto che non si scenda sotto il tetto dei 100mila euro). Tornando al salvataggio delle quattro banche italiane, chiudiamo con una domanda sugli effetti che potrà avere questa operazione sul lungo periodo: «Se il piano non dovesse funzionare come previsto – si chiede Silvia Merler – e la linea di credito a breve non potesse essere interamente ripagata da contributi delle altre banche, cosa succederebbe? Una nota di Banca Intesa dice esplicitamente che subentrerebbe la Cassa depositi e prestiti (partecipata all’80 per cento dallo Stato). Forse è un po’ prematuro, da parte della Banca d’Italia, affermare con certezza che i contribuenti non sosterranno alcun costo nell’operazione».

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