Si è molto parlato nei giorni scorsi di quanto avvenuto al raduno degli alpini a Rimini, e delle centinaia di segnalazioni di molestie subite da altrettante donne da parte di partecipanti alla manifestazione.
L’Associazione nazionale alpini (Ana) ha reagito dapprima cercando di minimizzare l’accaduto, poi prendendo le distanze «dai comportamenti incivili segnalati, che certo non appartengono a tradizioni e valori che da sempre custodisce e porta avanti». Reazioni goffe e un po’ anacronistiche, visto che non è la prima volta che si verificano situazioni simili nel corso di raduni degli alpini.
I fraintendimenti che hanno dato vita a tali reazioni sono stati ben sintetizzati da Massimo Gramellini nella sua rubrica per il Corriere: «Il primo è che qualsiasi appunto rivolto agli esponenti di una comunità viene vissuto come un attacco all’intera corporazione. Se scrivi che l’assassino era un geometra, ti arriva la replica offesa di un’associazione di amici dei geometri; se rilevi che il verduraio all’angolo ha alzato il prezzo dei carciofi, si indignano la federazione dei fruttivendoli e l’ente a difesa del carciofo. Il secondo baco, ben più grave, è la tesi secondo cui una molestia diventa credibile solo in presenza di una denuncia all’autorità giudiziaria. Ma vi immaginate se una donna andasse in questura a segnalare ogni sguardo lascivo, ogni avance becera, ogni contatto non gradito? Ci sarebbero le code fuori dai commissariati, con i numeretti. […] Prima che giuridico, le molestie sono un problema culturale».
Il fenomeno sociale che sta alla base del problema, in questo come in altri casi, non è tanto il raduno degli alpini quanto la socialità maschile in generale. Ricordiamo bene i casi di uomini che a capodanno hanno molestato delle giovani donne in piazza Duomo a Milano, così come la molestia fisica subita da una giornalista sportiva fuori da uno stadio mentre era in diretta tv. Più che di maggiore controllo o sorveglianza durante gli eventi, c’è bisogno di nuovi modelli di maschilità, che (tra le altre cose) non comportino la sessualizzazione della donna come elemento di riconoscimento tra i componenti del gruppo. Perché purtroppo non è vero che, come sostenuto dall’Ana, sia «fisiologica» l’eventualità che «episodi di maleducazione» si verifichino «quando si concentrano in una sola località centinaia di migliaia di persone per festeggiare».
«Il raduno degli alpini è uno di quegli spazi tendenzialmente omosociali, come sono quasi sempre quelli militari, dove viene ancora espresso il modello tradizionale e patriarcale di maschilità», ha spiegato a Valigia Blu Giuseppe Burgio, pedagogista dell’università di Enna Kore e autore di Fuori binario. Bisessualità maschile e identità. «Nessun uomo è costantemente desiderante 24 ore su 24, e peraltro queste modalità di abbordaggio sono inefficaci: gli uomini sanno benissimo che non è così che si entra in relazione con una donna. L’obiettivo non è quello: si tratta invece di una performance pubblica di maschilità tradizionale. Questo si verifica spesso nella fase dell’adolescenza, ma in alcuni casi si protrae anche dopo, e si rafforza negli spazi omogeneamente maschile, come gli spogliatoi, i club della caccia, i bar dei paesi, e anche manifestazioni come questa».
Purtroppo fin da piccoli i maschi sono esposti (non sempre per fortuna, ma spesso sì) a modelli che dipingono il maschio come forte, capace di prendere decisioni, poco incline a manifestare e condividere emozioni. Come riporta il Post, «Fin da adolescenti, scrisse [il sociologo americano Michael] Kimmel, “apprendiamo che i nostri coetanei sono una sorta di polizia del genere che minaccia costantemente di smascherarci come femminucce”. L’omofobia trae origine dalla paura che altri uomini possano mettere in discussione la nostra maschilità, “rivelare al mondo e a noi stessi che non siamo all’altezza del nostro ruolo, che non siamo veri uomini”».
Abbandonare tali modelli ha delle ricadute in termini di benessere psicologico, spiega ancora il Post: «I modelli di maschilità più aperti e non basati sul predominio descritti dai men’s studies sono in generale ritenuti un esempio di sviluppo dell’identità degli uomini meno esposto al rischio di rabbia, frustrazione e depressione collegate a esperienze di insuccesso e che possono tradursi in un’aspettativa di vita ridotta».
Tra le cose da imparare (e da insegnare ai maschi, fin da piccoli), è che condividere le proprie emozioni è una cosa buona. Contribuisce a creare delle relazioni più sane, e quindi a scardinare poi le dinamiche di gruppo tristemente note. Come ha scritto su Psyche il docente universitario Andrew Reiner, «Gli uomini tendono a relazionarsi con gli amici maschi “spalla a spalla”. In altre parole, tendono a considerare soddisfatti i propri bisogni emotivi quando passano il tempo con gli amici maschi facendo attività come la mountain bike, i videogiochi, giocando a poker o guardando lo sport in televisione bevendo birra. È vero che condividere queste attività con gli amici toglie un po’ di peso dalla solitudine. Ma può anche distrarre dalla nostra vita emotiva più profonda. Come molte donne sperimentano nelle proprie amicizie, le conversazioni in cui le persone si aprono e mostrano empatia reciproca possono diminuire i sentimenti di solitudine, ansia e depressione, e aumentano la fiducia reciproca. L’aggiunta di un livello di condivisione emotiva alle amicizie maschili finirà per rafforzarle e per rafforzarci individualmente. È importante sottolineare che questo non significa che gli uomini debbano smettere di relazionarsi con gli amici maschi attraverso la birra o lo sport, ma significa bilanciare le amicizie con una maggiore trasparenza emotiva».
(Foto di Craig McLachlan su Unsplash)
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