«Le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana». Questa una delle frasi contenute nelle motivazioni della sentenza della corte d’assise di Caltanissetta relative al processo Borsellino quater, iniziato nel 2012. Nelle 1.865 pagine del documento si leggono altre considerazioni che in altri tempi avrebbero mobilitato partiti, media, società civile, per la gravità di ciò che vi si afferma. Vi si confermano in sostanza le perplessità sollevate nel corso degli anni dalle inchieste giornalistiche che con più serietà hanno provato a mettere in luce le contraddizioni delle tesi accettate dalla magistratura almeno fino al 2008, anno in cui si palesò la figura di Gaspare Spatuzza. La sua confessione, e le successive dichiarazioni rese in quanto collaboratore di giustizia, fecero perdere ogni credibilità alla versione precedente, che attribuiva a Vincenzo Scarantino tutte le responsabilità per l’attentato che nel 1992 uccise il magistrato Paolo Borsellino.

Nelle motivazioni si parla di inefficienze da parte della magistratura nel leggere gli elementi d’indagine e nello scegliere a quali testimonianze dare fiducia, e ci si interroga sull’appoggio che elementi deviati del corpo investigativo e delle forze dell’ordine dovettero ricevere da parte di rappresentanti delle istituzioni coinvolte nell’attentato come reali mandanti. «È lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento ad alcuni elementi», si legge ancora. E a proposito di Scarantino, si dice che quest’ultimo «palesa una incompetenza assoluta in materia di esplosivi, mostrando di ritenere che l’esplosione di una “bombola” faccia un danno molto maggiore di quello che si potrebbe provocare con un comune esplosivo. Ma è evidente anche che lo Scarantino non sa nulla circa le modalità di confezione della carica esplosiva utilizzata in via D’Amelio. […] Questo insieme di fattori – prosegue il documento – avrebbe logicamente consigliato un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni dello Scarantino, con una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi o negativi che fossero, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata incentrate su quello che veniva, giustamente, definito il metodo Falcone».

La vicenda è grave anche perché ha portato all’arresto di nove persone, detenute ingiustamente (e in regime di 41bis) per 11 anni, restituendo invece una reputazione intatta a coloro che, da dentro le istituzioni, lavoravano per ordire il depistaggio. Il giornalista Enrico Deaglio, che si è occupato a lungo della vicenda, ha evidenziato tempo fa il fatto che una prima deposizione da parte di Spatuzza si ebbe già nel 1998, a sei anni dall’attentato e con dieci anni di anticipo rispetto all’inizio della sua attività di “pentito”, resa «all’allora capo della Procura nazionale antimafia Pier Luigi Vigna (morto nel 2012) e al suo vice, Piero Grasso».

Si tratta di un’indagine molto complessa, che merita di essere conosciuta, approfondita e capita, perché non parla solo di una strage ma del Paese. Cosa che, temiamo, non avverrà, vista la ridotta rilevanza ottenuta dalla pubblicazione delle motivazioni nei giorni scorsi. Nessun esponente politico e istituzionale di spicco si è espresso per commentarla, l’argomento non ha avuto grande rilevanza sui media, la società civile non sembra particolarmente toccata dalla vicenda. Solo pochi anni fa, questioni come questa mobilitavano manifestazioni molto partecipate, oggi l’attenzione è posta su altro.

Chiudiamo citando l’intervento di Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato, nel corso di uno speciale andato in onda il 23 maggio 2017 sulla Rai per ricordare Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino: «Credo che ricordare la morte di mio padre, di Giovanni Falcone, di Francesca e degli uomini della scorta, possa contribuire a coltivare il valore della memoria. Quel valore necessario per proiettarsi nel futuro con la ricchezza del passato significa anche dire in maniera ferma da che parte stiamo, perché noi stiamo dalla loro parte, dalla parte della legalità e della giustizia per le quali sono morti. Credo che con questa stessa forza dobbiamo pretendere la restituzione di una verità che dia un nome e un cognome a quelle menti raffinatissime che con le loro azioni e omissioni hanno voluto eliminare questi servitori dello stato, quelle menti raffinatissime che hanno permesso il passare infruttuoso delle ore successive all’esplosione, ore fondamentali per l’acquisizione di prove che avrebbero determinato lo sviluppo positivo delle indagini. Quelle prove a cui mio padre e Giovanni tenevano così tanto. Tutto questo non può passare in secondo piano, e non può passare in secondo piano che per via di false piste investigative ci sono uomini che hanno scontato pene senza vedere in faccia i loro figli, come quei giovani che sono morti nella strage di Capaci. Questa restituzione della verità deve essere anche per loro. La verità è l’opposto della menzogna, dobbiamo ogni giorno cercarla, pretenderla e ricordarcene non solo nei momenti commemorativi. Solo così, guardando in faccia i nostri figli, potremmo dire loro che siano in un paese libero, libero dal puzzo del potere e del ricatto mafioso».

(Foto di Marco su flickr)