È bene sfruttare ogni occasione utile per ricordare il lavoro e il pensiero di Bruno Latour, sociologo e filosofo che per primo provò a mettere a fuoco i meccanismi di produzione del sapere scientifico all’interno dei laboratori di ricerca. Ne scrive Alessio Giacometti sul Tascabile.

A oltre quarant’anni dalla prima edizione del 1979, leggere Laboratory Life di Bruno Latour e Steve Woolgar rimane uno shock. Un antropologo sospende il dato per scontato fingendo di non sapere cosa siano la scienza, gli esperimenti e i ricercatori, entra in un laboratorio, e cosa vede? Gente che scrive, scrive tutto il tempo, amanuensi. Il loro argot è fatto di misteriose iscrizioni letterarie: interpolazioni logaritmiche, funzioni di distribuzione e altri simboli esoterici per rendere intellegibile la realtà “là fuori”, codici e tassonomie per estrarre l’ordine dal disordine. Con quelle bizzarre iscrizioni geroglifiche il “popolo del laboratorio” redige dei testi scritti, il più possibile persuasivi e tenuti in notevole considerazione dagli indigeni dei laboratori omologhi, al fine di intaccare il grado di “fattualità” di certe teorie sulla natura. “Un laboratorio esegue costantemente operazioni sugli enunciati”, annotano Latour e Woolgar: “aggiunta di modalità, citazioni, miglioramenti, ridimensionamenti, prese in prestito e suggerimenti per nuove combinazioni”.

È attraverso queste progressive operazioni di manipolazione degli enunciati che una teoria, dapprima gracile e insicura, si tramuta o meno in un fatto inoppugnabile. L’attività di laboratorio, intuisce l’antropologo, può quindi essere compresa nei termini di una continua generazione di documenti – in cima ai quali i paper – che hanno l’effetto di trasformare gli enunciati aumentandone o diminuendone lo status di fatti scientifici. Se quelle teorie accuratamente fabbricate in laboratorio continuano a essere considerate valide allora cominciano a diventare “vere”. L’impresa scientifica ha successo quando i fragili artefatti dei ricercatori riescono a cementarsi in fatti granitici e inattaccabili, chiusi ermeticamente in delle scatole nere che quasi nessuno avrà più l’ardire, o la pazienza, di riaprire. Di qui la necessità per l’etnografo di studiare la scienza “in azione” capitando in laboratorio prima che la scatola nera si chiuda, oppure vigilando minuziosamente sulle controversie in atto per tentare di riaprirla.

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(di KOKUYOOwn work, CC BY-SA 4.0, Link)

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