Quella del bullismo è un’esperienza molto diffusa all’interno degli ambienti scolastici o di altro tipo. Secondo i dati del rapporto Censis 2016 (in attesa dell’edizione 2017, che sarà presentato nei prossimi giorni), «Il 52,7 per cento degli 11-17enni nel corso dell’anno ha subito comportamenti offensivi, non riguardosi o violenti da parte dei coetanei. La percentuale sale al 55,6 per cento tra le femmine e al 53,3 per cento tra i ragazzi più giovani, di 11-13 anni. Quasi un ragazzo su cinque (19,8 per cento) è oggetto di questo tipo di soprusi almeno una volta al mese, eventualità più ricorrente tra i giovanissimi (22,5 per cento)». Un fenomeno decisamente diffuso, sul quale è sempre difficile attuare strategie d’intervento efficaci. Da un lato la colpevolizzazione del bullo non sempre ha un effetto correttivo (e inoltre ignora una serie di fattori di complessità del problema), dall’altro la tutela della vittima non potrà mai essere totale, con l’effetto di spostare gli episodi di violenza e umiliazione fuori lontano dalla scuola, ma senza arrivare a influenzare le relazioni tra i ragazzi e le ragazze coinvolti.

Un interessante approccio, diverso da quelli appena citati, è messo in pratica in diversi Paesi da alcuni decenni, e sembra dare risultati apprezzabili. Ne parla l’insegnante Rachid Zerrouki sull’edizione francese di Slate, in un articolo ripreso dal Post, che ne ha tradotto e riassunto i contenuti. Zerrouki, nella sua esperienza da professore, parla di un episodio di bullismo in cui ha cercato di intervenire nella maniera in cui chiunque abbia un minimo di sensibilità reagirebbe: empatizzando con la vittima, Lina, cercando di proteggerla dagli attacchi, e punendo l’aggressore, Capucine, con note e rimproveri. «Ho senza dubbio protetto Lina per un certo periodo e in un certo luogo, dimenticando però che tutto quello che accadeva poteva continuare ad accadere ogni volta che io distoglievo lo sguardo e nei luoghi dove la mia legge e il mio controllo non erano più validi o non erano presenti. La repressione è una benda su una gamba di legno», scrive Zerrouki.

Con questo approccio, si dimentica inoltre il fatto che il bullismo è molto spesso un atto di gruppo, anche se perpetrato da un singolo. È infatti la ricerca di approvazione da parte del gruppo che sta attorno ai due protagonisti a costituire lo stimolo per l’aggressore, che talvolta non ha problemi a rapportarsi normalmente con la sua vittima nei momenti e nei luoghi in cui vengono a mancare gli sguardi esterni. Questa considerazione è alla base del metodo elaborato dallo psicologo svedese Anatol Pikas. Ma prima di arrivarci, è interessante ricordare come sia nata la strategia della “tolleranza zero”, che ha trovato applicazione nelle scuole americane negli anni ’90, sull’impronta di quanto fatto negli stessi anni dall’amministrazione di New York per affrontare l’improvvisa impennata di reati violenti in città.

La tolleranza zero è stata la conseguenza di una teoria elaborata nel 1982 da due scienziati sociali, James Q. Wilson e George L. Kellin, detta “teoria della finestra rotta”: «Pensate a un palazzo con alcune finestre rotte. Se le finestre non vengono riparate, i vandali avranno la tendenza a romperne qualcun’altra. A un certo punto potrebbero entrarci e, se non è occupata, occuparlo o accendere dei fuochi al suo interno. Oppure pensate a un marciapiedi. Dell’immondizia comincia ad accumularsi. In breve si accumula molta altra immondizia. Alla fine la gente comincerà a buttarci i sacchetti dei ristoranti da asporto, oppure potrebbe cominciare a scassinare le auto». Il ragionamento è interessante, e forse si potrebbe opinare che l’approccio “tolleranza zero” rappresenta un eccesso di reazione: un conto è occuparsi di tutti i livelli di illegalità (o di bullismo), senza tralasciare i reati minori, altro è fare questo applicando pene esemplari ed eccessive rispetto alla gravità del gesto. Tornando al bullismo, Pikas negli anni ’70 ha proposto di riferirsi al fenomeno parlando di “mobbing”. Un’espressione che tutti associamo ai comportamenti molesti di un gruppo nei confronti di un singolo (solitamente in ambito lavorativo, ma il termine può applicarsi a più contesti). Si sposta così il bullismo da questione individuale a problema collettivo, coinvolgendo il gruppo che sta dietro all’aggressore materiale.

Di seguito la spiegazione di come si applica il metodo Pikas offerta dal Post: «Concretamente, il metodo di Pikas consiste in una serie di incontri tra l’insegnante e tutti i protagonisti per fermare la dinamica di prepotenza. Si ritorna sui fatti, si riconoscono, si stabilisce il grado di coinvolgimento di ciascuno, quindi si pensano insieme delle azioni per porre rimedio alla situazione. Il bullo dominante non viene punito e non viene giudicato. Tutta l’attenzione si concentra sul riconoscimento dell’ingiustizia e sulle azioni riparatrici. La prima fase prevede degli incontri individuali tra intimidatori e insegnante, che adotta un atteggiamento empatico e che mostra preoccupazione per la situazione dello studente bersaglio del bullismo. Chiede a ciascuno di descrivere che cosa è successo, e non appena viene riconosciuta la difficoltà in cui si è trovato lo studente bullizzato ci si chiede anche che cosa si possa fare per migliorare la sua situazione: i bulli sono dunque incoraggiati a diventare i soggetti che possono risolvere il problema che loro stessi hanno creato, e vengono messi in condizione di riparare ciò che hanno fatto. Le interviste sono brevi, seguono un copione di domande ben codificato e si rinnovano fino a quando i vari bulli non propongono soluzioni costruttive. E sono individuali per annullare l’effetto di gruppo, e per re-invidualizzare ciascuno dei membri. Per Pikas è molto importante non alterare la sequenza delle domande, non fare commenti e non cedere al desiderio di fare altre domande. Solo dopo la prima fase, l’insegnante incontra la vittima informandola degli incontri precedenti e dei suggerimenti che gli intimidatori stessi hanno proposto. Chiede anche se la vittima è disponibile ad accettare un incontro con i bulli. La terza fase prevede una verifica sia con i bulli, per accertarsi che i loro suggerimenti siano stati seguiti, sia con la vittima, per scoprire se ha notato dei miglioramenti nella propria situazione. Soltanto se la vittima è d’accordo, può avvenire un incontro collettivo, con l’obiettivo di mostrare che l’intimidazione è definitivamente parte del passato».

Si tratta di un metodo che, come tutti, ha sostenitori e detrattori. Secondo due ricercatori australiani è un approccio che ha avuto successo ovunque sia stato applicato. In ogni caso, meriterebbe di essere conosciuto e sperimentato anche dai nostri insegnanti.

(Foto di Matt Artz su Unsplash)