La lingua italiana si arrende e sventola bandiera bianca sotto i colpi incessanti del burocratese. Dopo dodici anni è stata abrogata la cosiddetta norma Bassanini (promulgata dal ministro Frattini con decreto legislativo nel 2001), che obbligava i dipendenti pubblici «ad adottare un linguaggio chiaro e comprensibile» con i cittadini italiani. Allora erano stati promessi una task force che avrebbe dovuto vigilare sul rispetto della legge, proteggendo gli italiani dal linguaggio oscuro della pubblica amministrazione, e un numero di telefono “sos lingua”. Ora questo obbligo è stato cancellato, il processo si ferma. Per la verità, non è che sia mai davvero iniziato. Chiunque stia leggendo queste righe, negli ultimi 12 anni ha sicuramente ricevuto lettere e comunicazioni ufficiali in cui gli si chiedevano cose semplicissime in una forma complicatissima. Ma un conto è subire tali violenze linguistiche sapendo che chi le commette sta violando una legge, un altro è sapere che invece questi sta agendo nel totale rispetto delle norme, e voi siete condannati per sempre a decifrare parole ed espressioni occulte.

È una doppia violenza quella del linguaggio burocratico. Innanzitutto perché costringe a una continua traduzione italiano-burocratese-italiano (più difficile per il cittadino che per il funzionario di turno, avvezzo a tale inutile messa in codice), poi perché svilisce una lingua, l’italiano, che è in grado di essere chiaro e preciso utilizzando il suo vocabolario di base. Il termine “burocratese” compare nella lingua italiana nel 1979, ma già nel 1965 Italo Calvino aveva individuato il problema e ne aveva parlato in un articolo comparso sul Giorno, di cui riportiamo un estratto: «Il brigadiere è davanti alla macchina da scrivere. L’interrogato, seduto davanti a lui, risponde alle domande un po’ balbettando, ma attento a dire tutto quel che ha da dire nel modo più preciso e senza una parola di troppo: “Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata”. Impassibile, il brigadiere batte veloce sui tasti la sua fedele trascrizione: “Il sottoscritto essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel ritrovamento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio soprastante”».

Se volete, il burocratese è l’arte di riferirsi a una cosa senza mai nominarla, «come se “fiasco”, “stufa”, “carbone” fossero parole oscene -continua Calvino-, come se “andare”, “trovare”, “sapere” indicassero azioni turpi». La norma che abroga il decreto si deve a Filippo Patroni Griffi, che paradossalmente la firmò quando era ministro per la Pubblica amministrazione e la Semplificazione nel  governo Monti. Ci chiediamo il perché di questo passo indietro, quando invece la direzione intrapresa 12 anni fa era quella giusta, e andava anzi rinforzata con altri interventi normativi e soprattutto provvedimenti attuativi da parte del governo (formazione degli impiegati, informazione ai cittadini, controllo). Invece oggi siamo tutti più esposti a una pubblica amministrazione che si pone sempre più come un moderno dottor Balanzone, con i suoi cavilli e la sua inutile verbosità. Così ci tocca continuare a subire tale violenza, verso di noi ma anche verso l’italiano, perché, per dirla con Calvino: «Dove trionfa l’antilingua -l’italiano di chi non sa dire “ho fatto” ma deve dire “ho effettuato”- la lingua viene uccisa».