Comunque la si pensi, il fatto che ci siano stati 391 cambi di gruppi parlamentari dall’inizio dell’attuale legislatura porta ad avere una Camera e un Senato fortemente ridisegnati rispetto ai risultati delle ultime elezioni politiche. Il numero di parlamentari autori dei cambi di cui sopra sono molti meno, 267 (di cui 150 deputati e 117 senatori), segno che in molti hanno cambiato gruppo più volte. Si tratta di un numero molto alto di “cambi di casacca”, come si usa dire, che ha pochi precedenti nella storia repubblicana: «L’unica legislatura con un cambio di gruppi vicino a quella attuale – scrive il Post – sembra essere la XIII, quella che iniziò con la vittoria dell’Ulivo di Romano Prodi alle elezioni del 1996 e vide la successione di quattro governi diversi (Prodi, D’Alema I, D’Alema II e Amato II). Secondo i conteggi di Pagella Politica, i cambi all’epoca furono circa 400 in cinque anni, una decina in più di quelli avvenuti negli ultimi tre anni e mezzo. Tornando ancora più indietro agli anni della prima Repubblica, gli unici dati che abbiamo a disposizione riguardano i “cambi di casacca” alla Camera e mostrano numeri considerevolmente inferiori, scrive Pagella Politica: “Da un minimo di soli 5 passaggi di gruppo alla Camera nella VI legislatura (maggio ’72-luglio ’76) a un massimo di 135 durante la IV (maggio ’63-giugno ’68)”».

C’è ovviamente una grossa differenza tra Prima e Seconda repubblica, visto che prima del 1994 il “peso” dei maggiori partiti era molto maggiore ed era difficile che gli equilibri (almeno a livello di composizione dei gruppi parlamentari) cambiassero radicalmente in corso di legislatura. Tutto si è fatto più “liquido” (grazie Zygmunt Bauman) in tempi recenti, quando non è raro che singoli parlamentari in disaccordo col proprio partito o gruppo decidano di andare verso altri schieramenti, o semplicemente verso il gruppo misto, dove confluiscono i non iscritti a un gruppo con un indirizzo politico dichiarato.

Alcune forze politiche hanno usato termini esplicitamente dispregiativi per descrivere questo fenomeno, parlando di “trasformismo”, “voltagabbana”, “traditori”. In realtà, almeno stando all’attuale legislatura, i numeri registrati sono in gran parte dovuti a crisi politiche più grandi. In particolare il centrodestra, attualmente in una fase piuttosto travagliata della sua storia, ha subito un forte riassetto quando, nel 2014, ha subito la fuoriuscita di un grosso numero di parlamentari, che sono andati a formare nuovi gruppi, tra cui “Area popolare” (che recentemente si è ulteriormente scisso) e “Alleanza Liberaldemocratica-Autonomie” (Ala), che si è “fuso” con Scelta Civica, progetto lanciato dall’ex presidente del Consiglio Mario Monti. Entrambi questi gruppi sono andati a rafforzare la posizione del gruppo espressione del partito di governo, il Pd.

Forse, più che pensare ai “tradimenti” dei singoli, l’attenzione andrebbe spostata su tali decisioni politiche più ampie. L’elettore che abbia espresso il proprio voto per il centrodestra nel 2013, sa che ora una parte delle persone che ha contribuito a fare eleggere fa parte di un governo dal baricentro più spostato verso centrosinistra. Siamo in una democrazia rappresentativa e i regolamenti di Camera e Senato permettono operazioni come questa, dunque non c’è nulla di scandaloso in senso assoluto nel fatto che ci sia un grande rimescolamento parlamentare. Tutto ciò mette però in evidenza l’estrema limitatezza del sistema democratico, in cui l’elettore si esprime una volta, a inizio legislatura, mentre per i cinque anni successivi (spesso meno) può solo stare a guardare (ma è difficile che si annoi tra elezioni di sindaci, presidenti di regione, parlamentari europei, referendum, ecc.). Il nostro sistema è fatto così, bisogna accettarlo (pensate agli elettori statunitensi, che si ritrovano un presidente eletto con meno voti della candidata sconfitta: funziona così e basta).

Dunque che fare? Che pensare di fronte a tale continua metamorfosi? «Alla camera i deputati transfughi sono il 23,81 per cento mentre al senato la percentuale è più alta e raggiunge il 36,56 per cento», scrive OpenPolis. Magari sarebbe interessante che almeno coloro che si rendono protagonisti di numerosi cambi di gruppo, percorrendo praticamente tutto l’arco che va da destra a sinistra e ritorno, non fossero ricandidati dai partiti. Capiamo che l’assenza di vincolo di mandato sia una giusta condizione di autonomia intellettuale per il parlamentare, ma il percorso fatto per esempio da Salvatore Margiotta (eletto nel Pd, poi passato al gruppo misto, poi ad “Area popolare” e infine di nuovo al Pd) andrebbe studiato, per capire le motivazioni alla base di una condotta così irrequieta. Cambiare idea è una virtù, ma sono notevoli anche i sei cambi di gruppo messi a segno da Luigi Compagna – anch’egli senatore – tra le varie formazioni del centrodestra. Il nostro parlamento sembra dunque sovvertire un adagio ben noto: le idee passano, gli uomini restano.