Cosa si può fare contro lo hate speech, che spesso impedisce il confronto civile nelle interazioni online, soprattutto sui social network? La risposta di un gruppo Facebook svedese è semplice: rispondere con dosi massicce di love speech. Si tratta di un’iniziativa avviata nel 2016 da una giornalista di origine iraniana e cresciuta in Svezia, Mina Dennert, «vittima a 14 anni di un attacco neo-nazista durante una festa dove, mentre era in stato di incoscienza per aver bevuto troppo, le sono stati tagliati i capelli e il suo corpo è stato coperto da simboli nazisti», racconta Roberta Aiello su ValigiaBlu. Il gruppo Facebook che ha creato si chiama #jagärhär, conosciuto anche come #iamhere (io sono qui), e conta quasi 74mila membri.
Il principio di funzionamento della (relativamente) piccola, ma agguerrita comunità è semplice. Quando viene rilevato un attacco carico di odio, insulti e minacce ai danni di una persona vulnerabile online, si agisce in maniera coordinata per rovesciare i contenuti delle reazioni dal negativo al positivo. Con una serie di commenti, “like”, cuoricini, e tutto l’arsenale a messo a disposizione dei principali social network e canali di interazione online, si arriva a “mandare in tilt” l’algoritmo che gestisce le visualizzazioni. Lo hate speech viene così archiviato in poco tempo, e al suo posto assumono rilevanza contenuti di supporto ed empatia verso la vittima dell’attacco. «Il gruppo #jagärhär è nato il 16 maggio 2016, dopo che Dennert aveva notato un aumento di commenti inquietanti sui social media. […] “Non era tanto per l’odio su Internet, ma per il fatto che diffondevano una visione del mondo basata su una affermazione assurda dopo l’altra”. Così è nata l’idea di creare una specie di squadra online. “Ho chiesto ad alcuni amici cosa ne pensassero. La strategia è semplice. Ci tagghiamo in modo che sia facile trovarsi l’un l’altro e clicchiamo ‘mi piace’ sui commenti reciprocamente, così che passino in cima alla discussione. Dimostriamo di esserci, così le persone si sentono a proprio agio nell’intervenire”».
Si potrà obiettare che azioni di questo tipo forniscono una visione distorta della realtà, visto che un numero relativamente piccolo di persone ben coordinate è in grado di far cadere un esercito di troll magari più numeroso (talvolta organizzato, come spesso capita in tentativi di disturbo delle campagne elettorali commissionati ad agenzie che offrono tali servizi). Ma allora dobbiamo metterci d’accordo su che cos’è la realtà: spesso le campagne d’odio che si diffondono online sono mosse da gruppi altrettanto ristretti. Il livello di visibilità garantito loro dai reciproci like e risposte, e l’effetto di amplificazione che spesso i media garantiscono (colpevolmente) nel riportare le loro gesta, fa sì che vi si aggiunga una folta schiera di utenti che approfittano della situazione per gettare altro veleno. Così nasce l’idea di una generale e diffusa rissosità delle persone, sui social ma anche fuori. E delle persone finiscono danneggiate, nella dignità e nella sicurezza personale.
Azioni come quella di #jagärhär non hanno certo l’obiettivo di rappresentare una qualche idea di realtà oggettiva. Si propongono innanzitutto di contrastare l’odio e spostare il clima della discussione dalla parte opposta. Sappiamo tutti, certo, che la realtà non è fatta tutta di odiatori, né solo di persone dal cuore grande e puro. Ma visto che finora le campagne istituzionali, nazionali e comunitarie, contro lo hate speech non hanno prodotto risultati particolarmente rilevanti, teniamoci stretto #jagärhär, e speriamo che cresca. Anzi, speriamo anche che le istituzioni prendano spunto per avviare campagne simili, e che si occupino di proteggere chi le fa, perché ovviamente gli odiatori della rete non hanno reagito bene: «L’iniziativa ideata da Dennert ha provocato anche reazioni negative. La giornalista riceve regolarmente minacce di morte e al padre sono stati recapitati alcuni proiettili. La donna e il marito sono diventati bersaglio dei troll che hanno pubblicato dati personali sensibili della coppia».