Il 18 ottobre è stata approvata dalla Camera la nuova legge sul caporalato, che definisce in maniera più specifica il reato legato allo sfruttamento di lavoratori dell’agricoltura e dell’edilizia. Viene semplificata la materia, in modo che più facilmente casi specifici possano rientrare nella fattispecie giuridica, e vengono ridefinite le pene previste. Difficile definire i contorni del fenomeno del cosiddetto caporalato, visto che si tratta di lavoro “sommerso” (cioè lavoro nero), ma sono state fatte stime che permettono di farsi un’idea. «Il terzo rapporto Agromafie e caporalato, del maggio 2016 – riporta il Post –, realizzato dall’osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil, dice che le infiltrazioni mafiose nella filiera agroalimentare e nella gestione del mercato del lavoro attraverso la pratica del caporalato muovono in Italia un’economia illegale e sommersa che va dai 14 ai 17,5 miliardi di euro».
Tutti soldi che vanno ad alimentare vari fenomeni negativi, tra cui lo sfruttamento dei lavoratori, l’aumento dell’evasione fiscale, nonché il fatturato della criminalità organizzata. Sempre il Post si sofferma a spiegare quali siano i contorni di ciò che definiamo caporalato, elemento che spesso sui giornali è dato per scontato: «Le pratiche di sfruttamento dei caporali prevedono: mancata applicazione dei contratti di lavoro, un salario di poche decine di euro al giorno, orari tra le 8 e le 12 ore di lavoro, violenza, ricatto, sottrazione dei documenti, imposizione di un alloggio e forniture di beni di prima necessità, imposizione del trasporto sul posto di lavoro effettuato dai caporali stessi, che viene fatto pagare molto caro ai lavoratori. Ci sono diverse figure nell’organizzazione del caporalato: il “caponero”, che organizza le squadre e il trasporto, il “tassista” che gestisce il trasporto, il “venditore” che organizza le squadre e la vendita di beni di prima necessità a prezzi spesso molto alti, “l’aguzzino”, che utilizza e impone sistematicamente violenza o la sottrazione dei documenti di identità (che serve per avere maggiore controllo di una persona), il “caporale amministratore delegato”, l’uomo fidato che gestisce per conto dell’imprenditore l’intera campagna di raccolta dei lavoratori. Ci sono poi nuove forme di caporalato come il “caporalato collettivo” che utilizza forme apparentemente legali (cooperative e agenzie interinali) per mascherare l’intermediazione illecita di manodopera (assumono con un contratto a chiamata indicando molti meno giorni di quelli effettivamente lavorati) e infine c’è il “caporalato mafioso”, legato alla criminalità organizzata». Si tratta dunque di una pratica che ha diverse declinazioni e che innesca un meccanismo molto complesso.
Con la nuova legge sarà molto più semplice, nell’ambito di un processo, arrivare a incriminare qualcuno per caporalato, visto che non è più necessario individuare una vera e propria attività di intermediazione (che peraltro non era chiaramente definita nella norma precedente), né è necessario che si siano verificati comportamenti violenti, minacce o intimidazioni nei confronti del lavoratore. La norma dovrebbe quindi avere un effetto positivo nella lotta a tale fenomeno criminale. Certo si tratta pur sempre di una legge che produce i suoi effetti ex-post, cioè dopo che il reato è avvenuto, dunque non si pone come obiettivo quello di prevenirne la commissione. Si tratta di un limite riscontrato anche da Fabio Ciconte e Stefano Liberti in un articolo per Internazionale. È dunque probabile che gli intermediari del caporalato continuino a operare come prima, forse con qualche preoccupazione in più di essere scoperti.
I due giornalisti sottolineano però come il fenomeno del caporalato si inserisca in un settore molto complesso, quello agricolo, in cui i piccoli produttori sono schiacciati da dinamiche che non possono governare, come quelle imposte dalla grande distribuzione. Sfruttando infatti le economie di scala della globalizzazione, nonché le norme sull’etichettatura del “made in Italy”, questa riesce a imporre sul mercato i propri prodotti a prezzi irraggiungibili per i produttori più piccoli. Questi si trovano dunque in qualche modo “costretti” a fare ricorso a manodopera sottopagata in modo da comprimere i costi e scongiurare la propria uscita dal mercato. Sul sito della campagna #FilieraSporca si parla, tra le altre cose, di come il pomodoro riesca a essere prodotto in Cina (che ne produce il 70 per cento del totale), trasformato in Italia (al concentrato importato da Oriente si aggiunge acqua e sale) e rivenduto in Africa come “made in Italy”.
Secondo Ciconte e Liberti (che sono impegnati rispettivamente con Terra! Onlus e con #FilieraSporca), l’unico modo per contrastare il fenomeno è rendere trasparente tutta la filiera: «Solo agendo sugli anelli successivi, facendo pressioni sulla grande distribuzione organizzata per rendere trasparente la filiera (mediante etichette narranti che raccontino la vita e il percorso del prodotto, dal campo agli scaffali), si potrà ridare vita a un’agricoltura in affanno».
Fonte foto: filierasporca.org