Da tempo è in corso una riflessione sull’eccessivo carattere punitivo del regime di carcere 41 bis, ossia quello previsto dal relativo articolo dell’ordinamento penitenziario, riservato ai condannati che si presume siano legati alla criminalità organizzata. La polemica più recente è stata sollevata dal Fatto Quotidiano, che ha erroneamente attribuito al sottosegretario alla Giustizia, Gennaro Migliore, la proposta di concedere l’utilizzo di Skype ai carcerati in regime di 41 bis. Come ha poi dovuto precisare il diretto interessato, la sua proposta è stata espunta da un’intervista concessa al giornale abruzzese il Centro, nel quale egli proponeva l’utilizzo del noto software per telefonare tramite rete dati, ma solo per i detenuti comuni (cosa che già avviene, con condizioni e procedure ben definite, nel carcere di Bollate), non certo per quelli legati alla criminalità organizzata. Come spesso accade, si è così spostata l’attenzione da un argomento molto delicato, come l’applicazione del 41 bis, verso una futile polemica che non aveva ragione di esistere. Riprendiamo un passaggio dell’intervento di Migliore durante una conferenza stampa tenuta all’indomani della sua visita al carcere dell’Aquila: «Fermo restando che ci debba essere una piena applicazione del principio per cui il 41 bis è stato pensato, ossia l’interruzione dei rapporti e dei legami tra le organizzazioni criminali e i loro capi, bisogna fare una riflessione, così come è emerso anche dagli Stati generali dell’esecuzione penale, su come ci possa essere una maggiore flessibilità rispetto all’applicazione di determinati aspetti di questo regime detentivo».
Dallo scorso aprile è disponibile sul sito della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato il Rapporto sul regime detentivo speciale indagine conoscitiva sul 41 bis, che ricostruisce le tappe (e i fatti storici) che hanno portato all’istituzione del “carcere duro” e un resoconto di alcune visite effettuate nelle sezioni in cui sono presenti detenuti sottoposti al regime speciale. «Quanto da noi puntualmente descritto è spesso orribile – ha commentato il presidente della Commissione, Luigi Manconi –, incompatibile col dettato costituzionale e umiliante per il nostro paese e per il nostro ordinamento. Il quale prevede che il regime di 41 bis persegua l’unico ed esclusivo scopo di interrompere le relazioni tra il detenuto e la criminalità esterna. Tutto il resto, in quanto non previsto, quando si riveli afflittivo, è illegale. Non è – o almeno così non è apparso ai membri della Commissione che hanno effettuato l’indagine e così non è scritto in alcun passo del rapporto – “vera e propria tortura”. Non per questo è meno illegale, non per questo è meno meritevole di essere al più presto modificato».
Che il sistema carcerario italiano sia un sistema che porta i detenuti alla marginalizzazione, piuttosto che verso opportunità di reinserimento in società, è un fatto noto. Abbiamo parlato spesso dei problemi di sovraffollamento che affliggono molte strutture carcerarie, che ci sono costate una procedura d’infrazione da parte della Commissione europea. Ultimamente il trend sembra essere cambiato, anche grazie alla visione portata dal ministro della Giustizia attualmente in carica, Andrea Orlando, che durante gli Stati generali dell’esecuzione penale ha espresso così il suo punto di vista sulla questione: «Il carcere viene usato come strumento di propaganda e di paura. Paure spesso legate più alla realtà percepita. Dobbiamo quindi spiegare che serve a realizzare sicurezza, ma a patto che non sia sinonimo di segregazione. All’interno devono prevalere percorsi che siano condizione per una reintegrazione sociale. Abbiamo bisogno di strutture, insomma, che siano strumenti contro il crimine e non scuole di formazione della criminalità pagate dai contribuenti».
Un esempio positivo è costituito dal carcere di Bollate, che ospita una Academy della multinazionale tecnologica Cisco Systems. Grazie ai corsi di altissima specializzazione informatica tenuti all’interno della struttura, molti detenuti sono riusciti a crearsi una professionalità nuova e all’altezza delle richieste del mercato. «In questi anni – racconta l’Espresso – si sono certificati con il massimo dei voti Giuseppe P., ex rapinatore seriale; Massimo U. e Abdel K., ex trafficanti internazionali di droga; Bogdan S., alle spalle più di un omicidio; Anier S., ex rapinatore di gioielli. Di questi, in due hanno già in tasca un contratto a tempo indeterminato. È il caso di Abdel, per esempio, che ora si occupa di migliorare le reti interne e i server per una società lombarda con 13 sedi aperte». Non dimentichiamoci che formazione e lavoro diminuiscono la percentuale di recidiva dell’80 per cento.
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